Pulire le facce dai nomi

«Pudore» di Maddalena Fingerle

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Pudore

Nella sua Ballata della vita esteriore, lo scrittore austriaco Hugo von Hofmannstahl paragonava il significato delle parole a «greve miele [che esce] dai favi vuoti». Di per sé il linguaggio e le parole sono contenitori vuoti che noi scegliamo di riempire di significati che mutano a seconda del contesto. Ne sa qualcosa, ad esempio, Giorgio Vasta, grande maestro di trasformazione del linguaggio a cui molti scrittori italiani devono molto, che nel suo Il tempo materiale ha riempito di nuovo significato il linguaggio per creare un immaginario utile ai tre protagonisti per emulare il linguaggio delle Brigate Rosse.

Fra i tanti scrittori e le tante scrittrici che devono molto a Giorgio Vasta figura sicuramente Maddalena Fingerle, che dopo le parole sporche di Paolo Prescher in Lingua madre torna in libreria con Pudore (Mondadori, 2024), un romanzo che le parole, invece, vuole pulirle completamente se non distruggerle e farle rinascere come l’araba fenice attraverso un personaggio che si fa linguaggio cercando di trasformare radicalmente la propria identità.

La trama di «Pudore»

Protagonista del nuovo romanzo dell’autrice bolzanina è Gaia, una studentessa di Monaco di Baviera originaria di una famiglia italiana borghese e facoltosa. La famiglia di Gaia sembra avere tutto ciò che dovrebbe desiderare, e tutti gli strumenti necessari per garantire alla figlia un sostentamento dignitoso, se solo non fosse che quest’ultima la disprezza e ne rigetta pure il culto dell’apparenza, del corpo e dei ruoli nella società, che come dimostrano le sedute dallo psicoterapeuta della madre e la presunta rottura fra suo fratello e sua moglie non sembrano funzionare.

Gaia, però, è ossessionata da una persona: Veronica, una studentessa italiana anche lei di stanza a Monaco, di origine meridionale, una persona che di certo non ha gli stessi dilemmi sociali che ha la protagonista. Le due sono state legate sentimentalmente, ma Veronica ha troncato la relazione con la protagonista in quanto quest’ultima non è in grado di prendere in mano la propria vita. Gaia, però, vuole dimostrarle che, invece, sa essere in grado di dare forma alla propria vita, e lo farà cercando di assumere una nuova identità che parte da quella della sua ex fidanzata.

Dalle parole sporche ai nomi puliti

Con Pudore, Maddalena Fingerle prosegue un percorso di analisi del rapporto fra linguaggio e significato iniziato con l’esordio di Lingua madre e proseguito con il suo racconto breve Una proposta stronza e i suoi saggi dedicati al trasformismo e alle allegorie in Gian Battista Marino.

Se per il personaggio di Paolo Prescher non era affatto vero che «le cose chiare sono pulite e le cose scure sono sporche» e ha cercato di dimostrarlo usando le parole con una ricorsività ossessiva tale da cercare di annullare il significato delle parole, la narratrice anonima di Una proposta stronza, riflettendo sul nome da dare al bambino che partorirà, cioè Alex, discute sulla presunta correlazione fra «ciò che io dico e ciò che pensa di essere», ironizzando sul fatto che il bambino non si girerà mai se lo chiami “caramella”, alludendo al fatto che, pur non avendo chiaro il concetto di identità, nel ritmo di questa parola non si riconosce.

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La protagonista del nuovo romanzo della vincitrice del Premio Calvino 2020 sembra essere la perfetta sintesi fra i due personaggi citati. Gaia, infatti, vuole ripulire la sua identità del suo nome fino a trasformarsi completamente, dimostrando come non ci sia un effettivo legame fra il nome e ciò che pensa di essere: «poi dovrei dirgli che non ci sono nomi», afferma, «né il mio né il tuo né tutti quelli che ho immaginato, che aderiscono all’idea che ho di me. Io sono io, non Gaia». Gaia vuole, dunque, pulire il suo corpo e la sua identità da un nome che in realtà non la rispecchia e che si rivela essere una maschera come un’altra per nascondere o impedire al vero io di emergere.

«Io sono io, non Gaia»: tra famiglia, bilinguismo e corpo

Come in Lingua madre, anche in Pudore la protagonista ha un rapporto conflittuale con la propria famiglia. La pulizia delle parole – in questo caso dei nomi – parte proprio dal confronto con il proprio sostrato culturale e familiare, ciò che origina nella protagonista il pudore del titolo, ovvero la paura nel mostrarsi per quello che si è per non deludere le aspettative degli altri, ma soprattutto per cercare di essere fedele al nome che si porta.

Per ciò che concerne la lingua, Gaia nota, ad esempio, come i complimenti che gli uomini le fanno non funzionano in tedesco, in quanto i tedeschi non fanno mai i complimenti, mentre in italiano funzionano. La sigla “Dr.”, invece, non significa medico, bensì indica colui che ha un dottorato, e infine i divieti in tedesco hanno più forza con un semplice “è vietato” rispetto al “severamente vietato” degli italiani. Questi parallelismi fra italiano e tedesco lasciano intuire una scissione a livello linguistico nell’identità di Gaia, in continua ricerca di una lingua che riesca ad esprimere veramente quello che sente e percepisce.

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Una di quelle cose che Gaia non sa esprimere è il proprio corpo. La protagonista, infatti, ha un rapporto conflittuale con la sua fisicità, al punto che esiste soltanto in quanto percepita dagli altri, come ad esempio suo padre: «il mio corpo, la mia vita», dichiara, «per lui tutto è un peccato. Ultimamente mi sono fatta più donna, abbassa gli occhi a terra, agli uomini piace, ma devo stare attenta a farmi rispettare». Fino alla fine, nella protagonista continua a esserci una tensione verso lo sguardo altrui che fa sì che ogni scelta sia stata compiuta in maniera indipendente quando in realtà è stata fatta per compiacere lo sguardo degli altri.

Essere stufi del proprio nome

Sintomo di questo disagio è l’orticaria che colpisce frequentemente la protagonista, che si gratta in continuazione la pelle come per voler disfarsene e cambiare definitivamente vita, cosa che effettivamente decide di fare nel momento in cui decide che è arrivato il momento di prendere in mano la propria vita:

Ormai sono diventata un’estranea a casa mia, mi fa schifo tutto e sono stufa di prendere antistaminici che non funzionano e avere la pelle devastata, sono stufa di grattarmi e svegliarmi la notte, sono stufa di essere sempre l’ultima scelta e mai la prima. Sono stufa di dovermi nascondere davanti ai miei, che mi considerano una vecchia zitella fallita. Cazzo, io non mi merito niente di tutto ciò.

Gaia decide «che non sono gaia e non voglio esserlo». Invece di nascondersi decide di cancellare la sua identità e di crearsene una nuova. Lo fa ispirandosi a Veronica, una che la costringe a stare nei suoi schemi mentali, la cui idea e immagine svuota di significato cercando di diventare lei stessa Veronica se non addirittura di liberarsi di lei.

In questo caso, Gaia si comporta come Tom Ripley, ma a differenza sua, però, imitando la sua ex nelle movenze, nell’accento, nel trucco e nella parrucca, non vuole sostituirsi a lei, bensì vuole dimostrare che, anche se predestinata ad avere un certo nome e un certo modo di essere, può decidere di vivere la propria vita come vuole adottando qualsiasi schema. Solo così, Gaia si libera dei suoi schemi e di quelli degli altri: prendendo nomi, parole e linguaggi e ripulendoli dei loro significati a riprova di come si possa essere artefici di se stessi senza imposizioni.

«Pudore»: la “Gaia” scienza del nome

Facendo un gioco di parole con un concetto caro al filosofo Friedrich Nietzsche, Pudore (acquista) stabilisce una “Gaia” scienza del linguaggio e delle parole: se i nomi e il linguaggio che ci hanno dato dalla nascita ci rinchiudono in schemi costrittori, l’unica cosa che ci resta da fare è distruggere questi vecchi schemi per scegliere il nostro modo di essere e di esprimerci. Con la stessa ossessione e ironia di Paolo Prescher, anche Gaia ci mostra come il nome sia un favo vuoto da cui fuori esce il miele, un contenitore vuoto che in realtà non rispecchia quello che veramente vogliamo essere. Una volta raggiunta questa consapevolezza, si può prendere in mano la propria vita e plasmarla secondo ciò che vogliamo essere.

[…] ma non è che io abbia difficoltà col suo nome. Lo penso senza dirlo. Il nome gliel’hanno dato i suoi genitori, nel migliore dei casi, e io non so niente di questa storia, per cui meglio stare zitta. Del mio non dico nulla; non mi va di spiegargli che è un nome sbagliato perché prende una decisione a priori sul mio carattere obbligandomi a essere in un modo che non mi va.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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