Nell’ottantesimo della sua morte, Maria Cvetaeva è stata riscoperta, riletta, amata. Le sue poesie sono lo specchio della sua anima esule.
La vita di Marina Cvetaeva: inchinarsi al dolore
Era una esule, Marina Cvetaeva. Esule dalla Russia e anche dalla vita. «I poeti sono tutti ebrei», scriveva. La sua storia ha il profumo della tragedia, si apre il sipario e il dolore entra in scena. Marina Cvetaeva si inchina davanti alla sofferenza, è un’adesione volontaria al dolore, la sua. Una chiamata alle armi accolta a testa alta.
Alla Rivoluzione del 1917 seguirono tempi duri, il cibo non bastava per tutti e la poeta fu costretta a scegliere tra la figlia maggiore e quella minore, Irina, che morì in orfanotrofio. Si dice che la bambina sbattesse la testa per terra per essere guardata. L’esistenza passava attraverso lo sguardo della madre, ma lei era sempre da un’altra parte, in un altro luogo. Un rimorso che difficilmente la donna avrebbe potuto superare.
Quando si pensa alla vita della Cvetaeva, in sala riecheggia la voce di Shakespeare, che ne Il racconto d’inverno scriveva: «Se il mondo intero avesse potuto vedere la scena, il dolore sarebbe stato universale». La sofferenza diventa la lente tramite la quale la poeta guarda il mondo, il metro con cui si misura. «Riconosco l’amore dal dolore», diceva.
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La Cvetaeva avrebbe sofferto per amore, una condanna. Nel 1911 sposa uno studente di filosofia, Sergej Efron, che allo scoppio della rivoluzione si arruola nell’Armata Bianca. Considerata come la voce femminile della rivoluzione, la Cvetaeva segue il marito in esilio a Praga, dove nasce il figlio Mur. Il bambino sarà il motivo che la spinge a resistere ed esistere, anche quando sembra non farcela più. Nell’autunno del 1925 la famiglia si trasferisce a Parigi, dove la poeta trascorrerà i successivi 14 anni.
Sarà una lenta disgregazione che porterà la Cvetaeva ad essere sempre più sola, in esilio non solo dalla sua terra ma dal mondo intero. Nel 1937 resta con Mur, il marito era diventato un agente sovietico e si era rifugiato in Spagna a causa del suo coinvolgimento nell’assassinio del figlio di Trotskij. La figlia Alja, filosovietica, aveva lasciato Parigi per tornare in Russia. Nel 1938 Marina Cvetaeva avvertiva un senso di inutilità che la portò a scrivere «vorrei morire ma devo vivere per Mur, ad Alja e Sergej non servo più».
Un anno più tardi fa ritorno nella propria terra, dove vive in incognito occupandosi di traduzioni. Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1939, i bombardamenti sono dei fuochi d’artificio su Mosca. La Cvetaeva, temendo che il figlio venisse reclutato, scappa con lui e un gruppo di scrittori verso la Repubblica Tartara. Qui morirà suicida, nel 1941. Una domenica in cui era rimasta sola in casa, dopo un anno in cui aveva preso le misure della morte. La sua sofferenza trova libero sfogo nella sua scrittura, già nel 1932 in L’arte alla luce della coscienza diceva «se esiste in questa vita il suicidio, non è lì dove lo si vede ed è durato non il tempo di premere il grilletto, ma dodici anni di vita».
Altrove. L’esule trova casa tra le righe
Virginia Woolf sosteneva che come donna, il suo paese fosse il mondo intero. Per Marina Cvetaeva, invece, il mondo non sembra bastare per farla sentire a casa. In ogni posto in cui va, rimpiange quello prima. La dimensione dell’altrove non la lascia respirare, tutto è il contrario di se stesso: il luogo amato è sempre quello in cui non si trova, l’amore è sempre quello che non ha vicino perché si può amare solo in lontananza, in assenza.
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Marina Cvetaeva affronta l’esilio scrivendo. La letteratura è, ancora una volta, la prima alleata della fuga. Da Omero a Cioran e Celan, ma anche Mann, Kundera e Amin Maalouf, gli autori hanno fatto della carta la propria casa, in un momento in cui non potevano fare ritorno. Anche Pasternak dovette fuggire dalle persecuzioni sovietiche e proprio con lui la Cvetaeva avrebbe avviato una fitta corrispondenza. «Boris ti scrivo lettere sbagliate. Quelle vere non toccano la carta». Un amore silenzioso, dal colore dell’inchiostro. «Io ti amo e voglio dormire con Te», scrive inoltre Cvetaeva, «lo dico con altra voce, quasi nel sonno, già nel sonno».
Scrivere per essere
Marina Cvetaeva vive di spinte contrastanti: scrivere e vivere, non scrivere e non essere. La propulsione alla vita non è altro che una mano che scorre veloce sul foglio. I suoi versi sono inarrestabili, si scrivono da soli. Lei e le sue poesie sono una cosa sola, d’altronde l’aveva detto: «A certi, ai poeti/il corpo va stretto».
Nel 2021 Voland ha pubblicato gli Ultimi Versi (acquista), una raccolta folgorante in cui la sofferenza della Cvetaeva viene percepita viva nel lettore. Nel 2016 Nottetempo aveva invece pubblicato Il campo dei cigni (acquista), che raccoglie le poesie scritte tra il 1917 e il 1920, un vero e proprio diario in versi del periodo cupo della guerra civile.
Per chi ha la scrittura che scorre nel sangue, per tutti quelli che nelle pagine si ritrovano, vivono ed esistono, non scrivere equivale a morire. Non sentire più nulla, solo la vita che passa. «Ho solo smesso di scrivere e di esistere».
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