«Maus»: trent’anni dopo siamo (ancora) capaci di ascoltare?

Voci dal cuore dell’inferno

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Maus

Gli uomini e le donne si alzarono davanti alla “Torah”, dicendo “Ascoltaci Dio di Israele”: ma lui non sentiva, era senza orecchi e senz’occhi e parlarono i morti con i morti

A parlare è Edith Bruck in Chi ti ama così. Il suo romanzo autobiografico è una delle molte ma spesso poco note testimonianze dell’orrore dei campi di sterminio nazisti che ci hanno lasciato ebrei ed ebree dell’est Europa e che sono state meritoriamente stampate da Marsilio.

Straziante e ricorrente è il tema del mancato ascolto, dell’aiuto atteso, bramato, ma mai arrivato. Un abbandono da parte di Dio e degli uomini per cui ancora oggi noi ci indigniamo, di fronte a un’umanità alla deriva che lascia affogare una sua parte nell’abisso del genocidio. Il Ghetto di Varsavia lasciato, solo, a combattere contro la Wehrmacht, l’esercito più potente del mondo. La Germania rasa al suolo, tutta, tranne i binari che portarono allo sterminio. Addirittura chi in Italia scherniva e canzonava, chiamandolo “Mauthausen”, chi aveva avuto la forza di tornare dopo essere stato «nel cuore della gehenna», per riprendere l’espressione che fa da titolo a uno straordinario diario composto da un deportato nello stesso campo di Auschwitz.

A settant’anni dall’inizio dell’orrore – dalla Conferenza di Wansee recentemente ricordata dalla serie tv su vecchi e nuovi integralismi, Unorthodoxcon i testimoni che via via ci lasciano, cosa resta della memoria di quello che è stato? Siamo ancora capaci di comprendere che cosa è stata la Shoah, mettendo i fatti nel giusto ordine e nella giusta proporzione? Abbiamo ancora la forza di restare in silenzio e ascoltare la voce di chi ha attraversato l’inferno in terra?

Una storia che ci parla ancora

Se un libro può aiutare a rispondere a queste domande è senza dubbio Maus di Art Spiegelman. Il fumetto è stato ripubblicato oggi in Italia da Einaudi Stile libero in un pregevole cofanetto che contiene l’opera in due volumi (come fu l’edizione originale) e Il passato incombe sul futuro, raccolta di inediti dello stesso autore.

L’occasione della ristampa sono i trent’anni di un’opera di bellezza rara che ha fatto la storia della letteratura. Grazie all’innovativa capacità di condensare scrittura dei fumetti, il ricordo della Shoah e il racconto memorialistico e autobiografico, l’autore di origine ebraica riuscì a ottenere il Premio Pulitzer.

Al centro della narrazione sta un personaggio massimamente antipatico, un anziano e scorbutico ebreo, di nome Vladek, che dalla Polonia si è trasferito negli Stati Uniti. È a lui che si rivolge il figlio Art, chiedendogli di raccontare il passato di lui e di sua moglie Anja Spiegelman. Ha così inizio la nostra storia, che alterna con grande efficacia il presente del racconto con i ricordi della privazione durante la guerra (Mio padre sanguina storia) e dell’orrore della deportazione e della vita nei campi di sterminio nel seguito (E qui sono cominciati i miei guai).

Un libro che sanguina ancora

Il titolo di questo secondo volume può apparire ben ridicolo. E invece, oltre al libro, racchiude anche un mondo, quello della resilienza ebraica, che ne ha viste talmente tante che alla lunga ha dovuto per forza affermare “Non ci resta che ridere…”.  Sono proprio questi dettagli che hanno reso memorabile Maus, che gli danno la forza di raccontare l’identità di un popolo, riportando alla luce una storia dimenticata

È quella, maledetta, della nostra cattolicissima Europa, rimossa perché particolarmente dolorosa, intrecciata com’è con le nostre più oscure radici, quelle di chi non ha mai saputo fare i conti con la propria alterità. La storia di un continente che, dalla Spagna all’Italia fino alla Polonia, ha identificato, segregato ed espulso i propri “giudei”, “rei” di non integrarsi, di non aver riconosciuto il Messia o di continuare a professare “la religione dei padri”.

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Di fronte a chi, distrutto nel corpo e nell’anima, riuscì a tornare dai campi di sterminio, saranno proprio i polacchi a mostrare il volto più oscuro dell’antisemitismo europeo.  Dispiacendosi che Hitler non abbia finito il lavoro, reclameranno per sé la casa espropriata, impiccando personalmente gli ex proprietari, e arriveranno a compiere contro chi aveva avuto la “fortuna” di salvarsi il più grave pogrom del dopoguerra avvenuto nell’Est Europa

Art Spiegelman ha la capacità commovente di prenderci per mano per raccontarci storie che non vorremmo ascoltare e di portarci nel cuore dell’orrore e insieme della resilienza durante la Shoah. È la  forza ben sintetizzata da un ebreo – internato insieme al padre dell’autore – che in un campo di sterminio dove non riesce a trovare i vestiti della sua taglia esclama «Dio mio ti prego, Dio… Aiutami a trovare una scarpa giusta». Una reazione inverosimile? Nient’affatto, e a conferma basterebbe ricordare le barzellette talmudiche, che tanto avrebbero ancora da insegnarci in questi tempi bui:

C’è un asteroide che sta per abbattersi sul nostro pianeta, entro sette giorni la terra verrà completamente sommersa dalle acque. I politici di tutto il mondo cominciano a fare conferenze stampa, litigano e cercando di dare delle risposte a un’umanità terrorizzata. Dato che la politica non riesce a trovarle, si organizza un grande incontro dei capi delle religioni da ogni parte del mondo: ci sono tutti, il Papa, l’Imam, il rabbino, il patriarca ortodosso, il Dalai Lama… Uno dopo l’altro consigliano di pregare e redimersi per superare il momento difficile. Alla fine, tirando un sospiro, prende parola il rabbino: “Condivido quello che è stato detto, ma il mio messaggio sarà un altro: Abbiamo sette giorni di tempo per imparare a vivere sott’acqua”.

Usare uno specchio deformante per mostrare l’orrore

Dal punto di vista letterario, Maus ha fatto la storia della narrazione per aver deciso di rappresentare il genocidio ebraico attraverso gli animali, quasi si trattasse di una favola di Esopo. E, dunque, se a dare la caccia agli ebrei-topi sono ovviamente i tedeschi-gatti, altri personaggi della storia sono interpretati da maiali-polacchi, rane-francesi e cani-americani. 

La scelta causò polemiche per i notevoli rimandi dell’aver disegnato in questo modo la popolazione slava, ma non si può non rilevare quanta genialità vi sia stata nell’aver colto profondamente che l’orrore della Shoah è al limite del rappresentabile. L’orrore può essere visto e mostrato solo di sbieco, attraverso uno specchio deformante, lui sì capace di riportarci alla realtà: allo stesso modo di quelle superfici riflettenti, nere come la notte, che gli antichi utilizzano per osservare le fasi del Sole.

Ma la finzione può davvero essere più reale di un fedele rappresentazione della stessa realtà? Verrebbe da dire di sì, se a pensarla così fu anche lo scrittore premio Nobel Ivo Andrić nell’incipit del suo splendido racconto La storia dell’elefante del visir:

Le kasabe e le città della Bosnia sono piene di storie. In queste storie, per lo più inventate, sotto forma di eventi inverosimili e attraverso la finzione di nomi spesso immaginari, si nasconde la storia vera, e ignorata, di questa regione, degli uomini vivi o delle generazioni da tempo estinte. Sono quelle bugie orientali che un proverbio turco definisce “più vere della verità”.

Noi siamo memoria

Dal punto di vista autobiografico, nell’opera di Art Spiegelman è altrettanto potente l’intreccio mai artificioso fra la storia del padre e quella del figlio. La ricerca delle proprie radici si è trasformata in un confronto serrato e catartico con una relazione assai difficile. In senso più ampio, però, è il dialogo tra i vivi a essersi trasformato in un dialogo con rimossi, fantasmi e morti, in un rapporto denso e intenso con la memoria che ci riguarda tutti.

In occasione del 27 gennaio, quando conversai con rabbi Locci, ragionando di ricordo e Shoah, lui mi disse: «Noi non ricordiamo, noi siamo memoria». Un fatto, quasi una maledizione, di cui parla anche Art Spiegelman, quando ci racconta che il padre sceglie di buttare i diari di sua moglie Anja. Solita mancanza di tatto di un burbero oppure tentativo più che motivato di voler andare oltre, dimenticando? 

Non è un caso che tra le scene più belle di Maus (acquista) ci sia la seduta dell’autore-personaggio da uno psicoterapeuta sfuggito anche lui ai campi di sterminio. Il medico illustra la “sindrome del sopravvissuto”, quel senso di colpa e di vergogna di essere vivo, un sentimento condiviso con chiunque abbia attraversato l’esperienza di un genocidio. È la dolorosissima consapevolezza che nei campi di sterminio «sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti: i migliori sono morti tutti», come tremendamente scrive Primo Levi in I sommersi e i salvati.

Ma se la memoria dell’orrore è una maledizione, perché ricordiamo? Perché il ricordo è φαρμακός, insieme cura e veleno, perché raccontare è sofferenza ma anche terapia. La memoria può diventare elogio della potenza della vita e può riuscire a «trasformare la marcia della morte in marcia per la vita», come ci ha insegnato la forza dolce di Liliana Segre nel suo discorso al Parlamento europeo. Perché la storia della Shoah non è solo racconto dell’orrore, ma anche di resistenza, resilienza e creatività ai tempi del Male. Per questo ricordiamo: per rendere gloria a chi riuscì a restare umano di fronte all’indicibile.

Bibliografia

Edith Bruck, Chi ti ama così, Venezia, Marsilio, 2015.
Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia lotta, Firenze, Giuntina, 2012.
Luigi Ganapini (a cura di), Voci dalla guerra civile. Italiani nel 1943-1945, Bologna, il Mulino, 2012.
Salmen Gradowski, Sonderkommando. Diario di un crematorio di Auschwitz, 1944, Venezia, Marsilio, 2002.
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986.
Adam Michnik, Il pogrom, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
Carlo Saletti (a cura di), La voce dei sommersi. Manoscritti ritrovati dei membri del Sonderkommando di Auschwitz, Venezia, Marsilio, 1999.

Luca Cirese

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Redazione MM

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