Sembra che l’unica funzione delle donne sia quella di essere belle. Degli ornamenti sullo sfondo, curati e possibilmente impeccabili. Dall’aspetto esteriore dipendono giudizi che poco hanno a che fare con pelle o vestiti. Dal peso dipende la capacità della donna di impegnarsi, dalla levigatura dell’incarnato l’attenzione, dal trucco la dedizione. La donna vincente è bella, bellissima, e magra, anzi, magrissima.
In Il mito della bellezza (acquista) – uno dei testi più importanti del femminismo, pubblicato nel 1991 e tradotto per la prima volta in italiano da Tlon nel 2022 – Naomi Wolf riflette sulla pervasività dell’estetica definendo il mito come una forma di controllo sociale, in cui «la modella giovane e magra ha sostituito la casalinga felice come arbitra della femminilità di successo». Nonostante il saggio abbia trentadue anni, è più attuale che mai considerando il periodo di rivoluzione estetica che stiamo attraversando, tra body positivity, lotta alla grassofobia e utilizzo di un linguaggio inclusivo.
Il mito della bellezza
Il mito della bellezza è forse il figlio più subdolo del patriarcato, difficile da smascherare e ancora più complesso da sovrastare. Perché, se sei donna, fin dalla più tenera età ti viene insegnato – anche implicitamente – quanto sia importante curare l’aspetto fisico con una serie di rituali quasi paragonabili a quelli religiosi. La devozione sicuramente è la stessa. Ma il mito non agisce solo su skin routine, trucchi e altre cose simili, va più a fondo. La «Qualifica Professionale della Bellezza» – come la chiama Wolf – tra le altre cose, tiene le donne isolate le une dalle altre. Pensiamoci, non siamo abituate alla solidarietà e quella con le altre donne è spesso un’eterna competizione dove lo scopo è brillare. Il punto è che nessuno ci ha mai detto che unite possiamo splendere di più.
Sedativi politici
«Le diete sono il sedativo politico più potente di tutta la storia delle donne: una popolazione di pazzi tranquilli è molto manipolabile» scrive Wolf, identificando nella diet culture un tentativo di relegare ancora una volta le donne in una dimensione marginale, in una stanza tutta per sé dove potersi dedicare al controllo maniacale delle calorie e al proprio peso. Perché, diciamolo, una persona che vive dandosi alle restrizioni alimentari ha una voce più flebile. Non per motivi ideologici o questioni etiche, banalmente, ha meno energia. Tullio De Mauro ne L’educazione linguistica democratica scriveva «prima la bistecca e poi De Saussure e l’educazione linguistica», riferendosi all’assurdità del pensare che alunni economicamente svantaggiati, provenienti da famiglie in cui il cibo non bastava per tutti, potessero dedicarsi allo studio come i compagni con il piatto sempre pieno. Per le donne è lo stesso: i crampi silenziano il mondo e uno stomaco che brontola sovrasta tutto il resto.
Wolf parla di disturbi del comportamento alimentare (dca) in un momento in cui si era ancora lontani dalla loro esplosione. Sono complessi, sfaccettati, poliedrici, sintomi di un malessere più profondo. Toccano il cibo e il fisico ma vanno ben oltre entrambe le cose.
Le mie costole erano come uncini, la mia spina dorsale una lama smussata, la mia fame un pesante scudo: questi erano i soli strumenti di cui disponevo per difendermi dalle futilità che si sarebbero aggrappate come parassiti al mio corpo nel momento in cui avesse fatto un passo falso nel mondo delle donne
L’anoressia come danno politico
Wolf considera l’anoressia come un danno politico fatto alle donne da un ordine sociale che ritiene insignificante la loro distruzione, alla luce dell’alone di inferiorità con cui sono sempre state guardate. A nessuno, insomma, sembra importare qualcosa della fame a cui si condannano. Ovviamente ridurre i dca ad un puro fatto sociale, politico o culturale non basta. Dietro c’è ben altro, ci sono ambienti e relazioni disfunzionali, in cui il controllo dell’alimentazione diventa l’unico strumento di cui la persona dispone in quel momento per far fronte alle proprie difficoltà. Wolf scrive che «la ragazza anoressica si rifiuta di farsi dominare dal ciclo ufficiale: digiunando è lei che lo domina», e probabilmente non c’è affermazione più vera, sia sul piano culturale – abbracciando quindi un discorso più ampio – che su quello personale, con le tante storie di chi esercita sul cibo quel potere che non sente di avere in altri ambiti, in famiglia, a scuola o al lavoro.
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Oltre il mito
Per quanto ogni storia assuma contorni e sfumature diverse, Naomi Wolf ne racconta una comune a tutte perché il mito della bellezza è nell’aria che respiriamo. Una generazione fa le donne si interrogavano sul loro posto nella società, oggi le domande che ci poniamo riguardano il posto che occupiamo nel nostro corpo.
«L’idea che il corpo di una donna abbia dei confini che non devono essere violati è abbastanza nuova» scriveva la femminista all’inizio degli anni ‘90. Vent’anni dopo, non è una convinzione ancora rodata. Anzi, il concetto di confine quando si parla dei corpi femminili è sempre in pericolo, con la conseguenza di guerre interne – dai disturbi alimentari alla chirurgia estetica – ed esterne, come gli attacchi che le destre ciclicamente fanno ai diritti femminili, l’aborto in primis.
Cosa fare, dunque, per mettersi al riparo dal mito? Sorridere alle altre donne. Superare l’idea che siamo in competizione l’una con l’altra, per lasciare spazio ad un’alleanza. Essere consapevoli del mito, di modo che «quando qualcuno in futuro cercherà di usarlo contro di noi, non ci guarderemo più allo specchio per vedere in che cosa abbiamo sbagliato. [..] Non occorre che cambiamo il nostro corpo, basta cambiare le regole. Al di là del mito saremo sempre criticate per il nostro aspetto da tutti quelli che avranno bisogno di criticarci». Il problema, infatti, sta proprio qui: nella mancanza di libertà di scelta delle donne. Finché la definizione di bellezza verrà dall’esterno, continueremo ad essere manipolate da essa.
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