«Nefando»: come esprimere l’indicibile

Mónica Ojeda prima di «Mandibula»

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Nefando

Quando si vuole parlare di qualcosa di malvagio e scellerato si suole usare l’aggettivo “nefando”. Questa parola viene dal latino nefandus, composto dalla negazione “ne” e dal verbo “fari” (parlare), e vuol dire “indicibile”. Ciò che di malvagio ed efferato viene commesso è, dunque, qualcosa di difficile da esprimere.

Anche il secondo romanzo di Mónica Ojeda, autrice ecuadoriana che abbiamo imparato a conoscere con quello che invece è il suo terzo romanzo, Mandibula, si chiama Nefando. L’editore napoletano Alessandro Polidoro Editore l’ha ora proposto per la prima volta in italiano.

La trama di «Nefando»

Nefando si svolge a Barcellona, e ha per protagonisti sei studenti che condividono lo stesso appartamento. I fratelli Irene, Emilio e Cecilia Terán, la scrittrice Kiki Ortega, l’hacker Cuco e lo studente di scrittura creativa Iván Herrera. Tutti e sei sono responsabili della creazione di un videogioco – Nefando, appunto – finito nel deep web e poi rimosso per contenuti espliciti.

I contenuti di questo videogioco, infatti, sono video pedopornografici provenienti perlopiù dai fratelli Terán, che da piccoli hanno subito abusi e torture da parte del proprio padre sotto l’indifferenza della madre. Le violenze e gli abusi ritratti, però, esprimono molto di più, un indicibile, come recita il nome del videogioco, che molti, fra cui i protagonisti stessi, hanno rimosso e con cui ora sono costretti a confrontarsi.

«Nefando»: come si colloca nella produzione di Ojeda

Nefando è il secondo e importante tassello della produzione di Mónica Ojeda, conosciuta dalla critica per il suo «gotico andino», nato dalla commistione fra tradizione letteraria dell’horror, oralità e folklore delle Ande sudamericane e la più recente cultura internettiana delle creepypasta.

Questo nuovo romanzo, infatti, dialoga moltissimo con Mandibula e con La desfiguraciòn Silva (2014, inedito in italiano). Non solo perché vi sono personaggi che ritornano – i fratelli Terán di Nefando e Annelise Van Isschot di Mandibula sono protagonisti de La desfiguraciòn Silva – ma anche per la presenza delle stesse tematiche, riassumibili in questa frase detta da Fernanda, protagonista di Mandibula: «ma a volte penso che una storia, anche se è falsa, riesce a dire cose vere. Secondo me è questa la differenza tra le migliori e le peggiori horror stories: raggiungere un tipo reale di paura».

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«Nefando»: ragionare sulla raffigurazione del male

Leggendo questa frase, si capisce come Mandibula sia il punto di arrivo della narrativa di Ojeda. Una forma perfetta che l’autrice ecuadoriana è riuscita a ottenere dopo tante riflessioni su come rendere reale la paura e l’indicibile, giocando con l’inaffidabilità dei suoi personaggi.

Nefando, perciò, non è altro che ciò che ha permesso a Ojeda di ragionare sulla rappresentazione del male. Lo sottolinea giustamente Francesca Lazzarato nel suo articolo del 10 marzo 2022 per «Il Manifesto» dal titolo emblematico Come liberarsi della propria pelle.

[…] il romanzo, infatti, non si limita ad affrontare senza remore temi come la pornografia infantile, la ricerca del piacere attraverso la violenza, la riduzione dell’altro a oggetto da usare, il cuore nero della famiglia, l’incesto, ma riflette costantemente sulla possibilità di trasformare qualunque esperienza in linguaggio estetico per esporla allo sguardo di tutti, compreso chi non vuole o non sa vedere, Il che significa, prima di ogni altra cosa, parlare di letteratura, ripensarla, intraprendere un’indagine metaletteraria sulla rappresentazione del male e, infine, rimandare a un’ampia “biblioteca” che si discosta dal canone e non esita a frequentare anche territori marginali o disprezzati. Un romanzo-saggio, dunque? Sì, anche questo. O forse, al di là delle emozioni che suscita, soprattutto questo.

«Nefando» e l’indicibile

Tutti i protagonisti di Nefando devono confrontarsi con un dolore indicibile dovuto alla loro esperienza con la sessualità e la violenza. Se i fratelli Terán devono confrontarsi con gli abusi del padre, Kiki tenta di rielaborare quello che molto probabilmente ha vissuto durante l’adolescenza, ovvero l’abuso da parte di due studenti attraverso la scrittura di un romanzo che sembra anticipare Mandibula, mentre Iván cerca, invece, di venire a patti con la propria sessualità.

Tutti loro vivono con la vergogna del corpo, sprofondati in un silenzio che li rende prigionieri di «prigioni più grandi e polverose, talmente ineluttabili da spogliare di senso ogni tentativo di fuga». Per loro, sembra non esserci differenza fra «il bello e l’orrido», «uomo e bestia», «intelletto e istinto», «vita e morte». Il piacere è insito, come per le torture delle sante a cui fa riferimento Kiki, nell’idea del dolore. Paradossalmente, il rapporto con il proprio corpo si vive accettando il dolore, trasfigurandolo, come lascia intendere Irene:

Era sicura che da grande sarebbe riuscita a dire tutto quello che percepiva, nominarlo con le parole adatte, costruire una verità convincente, dare un significato al caos. Voleva crescere affinché il cervello le fiorisse nel rumore. Voleva sapere perché si sentiva spogliata della propria identità ogni volta che restava da sola con il padre. Era arrivata alla conclusione che gli adulti non si sentivano confusi dalla realtà: tutti respiravano con la bocca per dare forma a un solido nido di concetti articolabili con cui modellare ciò che vedevano, ascoltavano e dicevano.

Forme e linguaggio del “nefando”

Qui, allora, entrano in gioco il videogioco da un lato, e la scrittura dall’altro. Entrambi sanno rappresentare la realtà, tutti si riconoscono nel non detto che sanno esprimere «perché tutto ciò che è trasparente è opaco. Vediamo esattamente quello che non guardiamo». Laddove non riescono le persone, riesce la scrittura, che trasfigurando l’esperienza umana riesce a svelare la violenza e l’abuso, a mettere a nudo il male che alberga dentro di noi.

È così, allora, che i Terán e il Cuco inventano il videogioco, che Kiki scrive il suo romanzo, mentre Iván racconta i tormenti della sua sessualità riesumando la mitologia andina e le storie di Queztalcoalt e Tezcatlipoca, ovvero rendendo l’indicibile dicibile attraverso nuovi modi di esprimersi. «Questo pomeriggio», si legge nel forum del deep web, «si è aperta la porta dell’armadio e dalle sue profondità è emerso un coccodrillo che adesso vaga per la stanza. Sulle squame si legge «QUESTO ANIMALE: LA MIA VOCE».

Dare voce alla violenza

Attraverso la scrittura e il linguaggio, i personaggi di Nefando riescono a dar voce al loro «animale», al dolore dell’infanzia e della vergogna negata del corpo, puntando il dito contro tutti coloro che vogliono reprimere ogni sofferenza e ricerca del piacere. Scrivere per Ojeda significa questo: avere il coraggio di «andare oltre se stessi: fare ciò che non avresti fatto, essere ciò che non eri, in altre parole scaraventarti fuori per provare le sensazioni all’esterno di un ridotto campo di emozioni».

Mettersi, dunque, a nudo, e spogliare gli altri della propria vergogna, ponendoli di fronte alla paura di provare dolore e piacere e confrontarsi con il proprio corpo. In altre parole: far sì che gli altri accettino l’animale che è in loro, lo sporco, l’istinto e l’irrazionale che ci rende esseri umani. Prendere atto che siamo attori e vittime dell’indicibile, parte fondamentale della nostra crescita.

«Nefando»: Mónica Ojeda prima di «Mandibula»

Nefando (acquista) conferma ancora una volta il talento di una delle autrici contemporanee più talentuose di sempre, Mónica Ojeda, che sapientemente sa ragionare sui modi di rappresentare l’indicibile e la violenza. Questo romanzo è la prova che si possa – e si deve – parlare del male attraverso la letteratura, che come il videogioco omonimo del libro è «un limbo dell’impostura» che attraverso la trasfigurazione ci permette di accettare la paura, la sofferenza e la violenza per poter conoscere se stessi, avere consapevolezza del proprio corpo e per poter sopravvivere al male.

Le sembrava che la realtà avesse una forma misteriosa, simile a un totem di maschere bianche, e faceva fatica a raccontare quello che le succedeva perché non era sicura di cosa stesse accadendo intorno a lei. In quelle condizioni mentire finiva con l’essere un atto fortuito, involontario, che si verificava ogni volta che apriva bocca. Per quanto non fosse sua intenzione ingannare nessuno, non poteva evitare di mentire, perché quando era sottacqua e l’immagine del padre era una macchia informe, bastava poco per distorcere la realtà.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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