Nel dibattito pubblico, ultimamente è diventato sempre più centrale il corpo. Corpi magri, in carne, sani e deformi: qualsiasi tipo di corpo fa parlare di sé, esposto come un freak show agli occhi degli altri, in continua posizione giudicante, subito pronti ad associare a un certo tipo di corpo una certa personalità. Se sei troppo magro sei malato, se sei in carne vivi a tuo agio, e se hai qualche malformazione fisica automaticamente hai qualche problema mentale. Il corpo non è altro che carne abitata dallo sguardo e dal pensiero proprio e altrui, che ospita visioni e percezioni diverse sempre in conflitto tra loro.
Il rapporto fra corpo e sguardo è centrale soprattutto in Nataroccia, romanzo d’esordio di Silvana Miano edito nella collana Labirinti di Agenzia Alcatraz. Finalista alla XXXVI Edizione del Premio Italo Calvino, il romanzo di Miano cerca di liberare il corpo dallo sguardo anche e soprattutto attraverso la ricerca di nuovi modi per raccontare se stessi e il corpo.
La trama di «Nataroccia»
La protagonista di Nataroccia è Fulvia, una volta bambina curiosa e ribelle che suscitava nella madre la vergogna di non avere «una figlia con le codine e una bocca che parlava pulita» e legata, al contrario, da un rapporto di grande affetto con Orazio, il padre macellaio semianalfabeta appassionato di Mascagni e Verdi, ora donna adulta che dall’entroterra siciliano si è trasferita in una grande metropoli, molto probabilmente al nord.
Leggi anche:
Margherita ha scelto di morire
Fulvia sente di vivere «in una casa che non è la mia, in una città che non è la mia, in un corpo che non voglio mio». Ha, difatti, una relazione di odio e amore col proprio corpo, che spesso la porta alla bulimia, e che condiziona le sue relazioni, come quella con Pietro. È questo conflitto, però, che porta la protagonista a trovare un modo per uscire dallo sguardo giudicante degli altri per riappropriarsi del proprio corpo e dunque del proprio io abitando la sua carne secondo la sua percezione e il suo modo di vivere.
Seguire il flusso
Come anticipato all’inizio, Silvana Miano prova a trovare in Nataroccia nuovi modi per parlare dell’io e della sua corporeità. L’autrice sceglie di farlo in due modi: non solo soffermandosi il giusto sui dettagli fisici dell’aspetto di Fulvia, ma anche giocando con la narratologia. Miano, infatti, sceglie volontariamente di rifiutare una narrazione lineare – tipica di chi con lo sguardo vuole imporre l’ordine e un’idea distorta di giusto – preferendo una narrazione che alterna il tempo presente al passato alternando diversi momenti della vita di Fulvia che non sono collegati fra loro in senso cronologico. Dopotutto, la percezione del corpo e il suo abitare parte dal modo in cui lo si narra.
Leggi anche:
Una vita frammentata
L’intento dell’autrice è annunciato fin dall’inizio dall’esergo del libro tratto dalle lettere di Marina Cvetaeva: «raccogliere, in ginocchio, i pezzi della coppa rotta? No, no e no. Le mani dietro la schiena. E le spalle dritte». Fulvia si ritrova davanti a pezzi di presente e passato, ma a differenza, ad esempio, di Nina, protagonista di Croste di Jessica La Fauci – compagno di collana di Nataroccia –, che i pezzi li raccoglie e li accumula per poi liberarsene una volta averli sistemati, la protagonista di Miano decide volontariamente di lasciarseli cadere addosso e di osservarli, perché riordinare i pezzi della sua vita significherebbe darla vinta a chi vorrebbe raddrizzarla.
L’apprendistato del no fra i maiali di Orazio
Fulvia, dunque, intraprende una sorta di “apprendistato del no”, provando, come teorizzava Christa Wolf, un dolore nel farsi soggetto, ovvero tentando di ribellarsi allo sguardo altrui attraverso il rifiuto della loro idea di perfezione e linearità che la porta a scegliere un suo modo di raccontarsi che passa per il dolore che gli altri le hanno causato:
Non sento l’esigenza di avere sempre un’opinione su tutto, ma voglio che nessuno mi tolga le parole dalla bocca o provi a infilarmele di sue perché si crea dentro di me come un sovralzo di tempesta, con conseguente eiezione di ogni tipo di pesci abissali.
Questo sovralzo di tempesta è causato, ad esempio, dal ricordo del confronto che la madre faceva con le figlie delle altre, oppure dall’incontro con la commessa Laura e la discussione sulle mutande a vita alta, dalla goffaggine di quando faceva da chierichetta in chiesa oppure dalla prima volta in cui ha avuto le mestruazioni. Tutti questi episodi portano con sé un certo peso di sofferenza che Fulvia è stata costretta a portare con sé e che l’ha costretta anche a odiarsi.
Leggi anche:
Ogni corpo è un campo di battaglia
Se da una parte ci sono persone che quasi l’hanno costretta a odiarsi, dall’altro c’è Orazio, il padre macellaio, che grazie ai maiali che uccideva nella casa in campagna ha impartito a Fulvia una lezione fondamentale: «pensavo ai corpi appesi ai ganci della macelleria», osserva la donna, «il corpo è pesantezza, è la vita, mi diceva Orazio, il resto non ha senso, tutto passa attraverso le cosce, le braccia, le ossa».
Osservare gli animali per conoscere se stessi sembra una lezione impartita dagli animali – specie dai cani – dei romanzi di J.M. Coetzee: il corpo non è altro che materia, una categoria affibbiata agli esseri viventi per costringerli in degli schemi che non li rispecchiano. Quello che conta è ciò che lo contiene: è quello che va amato e custodito, protetto dallo sguardo altrui.
Un corpo vale quanto quello che può offrire
È in questo senso che bisogna interpretare i concetti di kronos e kairos che a un certo punto Fulvia menziona. Concetti che gli antichi Greci usavano per il tempo, ma che qui possiamo applicare al corpo. Fulvia adopera il seguente passaggio, ovvero la transizione dal corpo come quantità a quello come qualità, dal corpo come pura materia al suo contenuto: l’anima.
L’anima di Fulvia «fa non quello che è giusto, ma quello che vuole fare»: si sottrae a un rapporto sessuale con Pietro stabilendo quello che è giusto che lei faccia durante il coito, sceglie di riempire il carrello della spesa con quello che vuole, noncurante dello sguardo dei conoscenti, ma soprattutto stabilisce lei i tempi e le modalità della gravidanza, tema quest’ultimo che ancora oggi imbriglia il corpo femminile nello sguardo fin troppo giudicante delle persone.
Se, inizialmente, la protagonista pensava «un’anima grassa per un corpo grasso, secondo il principio che ognuno ha l’anima che si merita», ora, invece, ha compreso come le scelte che fa non sono determinate dal suo corpo, ma dal suo essere persona in primo luogo, la prima che deve abitare il corpo. Fulvia inizia a non riconoscersi nel suo corpo perché ne ha trasformato lo sguardo nel momento in cui le sue azioni lo hanno reso libero dall’idea che le persone avevano del suo corpo. Fulvia fa, così, pace col suo corpo: liberandolo dallo sguardo altrui attraverso le sue azioni, che giuste o sbagliate che siano la fanno essere la Fulvia che lei conosce, che ha sempre conosciuto e che ha sempre voluto essere.
La meraviglia nella finitudine
Contro ogni fenomeno di body shaming, Nataroccia (acquista) è un libro che, attraverso un doloroso cammino di consapevolezza, ci insegna come non sia il corpo a dirci chi siamo, ma siamo noi a dire cos’è il nostro corpo. Quest’ultimo è solo una categoria usata dalla società per definirci sulla base di idee astratte che non hanno corrispondenza reale con il nostro essere. Il nostro corpo non incide sulla nostra anima e la nostra vita, in quanto sono le nostre scelte che ci dicono chi siamo, non il corpo che indossiamo.
Non sono bella, non sono brutta, ho sembianze umane e sono un essere finito. La mia finitudine mi fa meraviglia e mi solleva dalla responsabilità d’essere immacolata e priva di sbavature. Faccio i conti con la mia ristrettezza di pensiero e di corpo e da poco ho compreso il loro collegamento bidirezionale: se va in putrefazione l’uno, ci va anche l’altro.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!