Nessun’altra città come Berlino

«La chiave di Berlino» di Vincenzo Latronico

9 minuti di lettura

Come ne Il cielo sopra Berlino (un film del 1987 diretto da Wim Wenders), quando la trapezista si dice di essere straniera in una città dove tutto è familiare, dove «è tutto da inventare», Vincenzo Latronico approda a Berlino nel 2009 per caso. Ha in ballo una proposta per il teatro, di cui attende risposta, e una borsa di studio per New York. Dovrebbe essere un breve viaggio e, invece, la città lo chiama a sé, come le sirene per Ulisse. A distanza di 14 anni non sa spiegarsi la decisione di trasferirsi, il perché di quel cambio radicale. È dal dubbio che inizia l’indagine, che inizia il romanzo La chiave di Berlino (edito da Einaudi).

Il confine tra fortuna e caso si fa labile nel momento in cui Vincenzo Latronico si dice di voler scrivere. Sul conto in banca pesa il risarcimento ricevuto dopo l’incidente stradale del 2003 – il giorno prima della maturità a un incrocio era stato investito da una Porsche nera –, lavora all’Università Statale, lavora al dottorato e fa l’assistente in Storia della filosofia contemporanea. Perché, dunque, Berlino? E la sua vacanza gli rivela una specie di vuoto, non a caso suo sinonimo.

Nessun’altra città è così piena di vuoto. Ai margini del centro urbano di Berlino, a pochi minuti di metropolitana dalla torre di Alexanderplatz, la città si spalanca nel nulla: l’aeroporto di Tempelhof, dismesso nel 2008 e convertito in un illogico parco senza qualità. […] era quel vuoto, quel senso di libertà, che cercavano i ventenni e le ventenni di tutto l’Occidente che a partire dagli anni Novanta si sono trasferiti qui. Cercavamo. Uno di loro ero io.

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«La chiave di Berlino» e la vita di un expat

Parlando dei primi mesi a Berlino, Latronico scrive che «ha preso sostanza in me l’idea che la città non sia innanzitutto un luogo politico – il punto di intersezione di storia e geografia, dove si scontrano pressioni sociali e forza produttive – ma un modo di vivere che si può scegliere per gusto e affinità, un lifestyle».

Ne Il cielo sopra Berlino si chiede «Chi sono io, chi sono diventata?», in una città in bianco e nero. A differenza di città come Milano, Parigi, New York – dove chi si trasferisce mira al successo –, a Berlino si scopre la capacità di poter galleggiare. La famiglia, gli amici, sono di colpo lontani. Occorre costruire una nuova vita, una rete di contatti, una comunità con cui plasmare una nuova identità. È a Berlino che Latronico conclude il primo romanzo, è in questa città che inizia a lavorare come freelance, come critico d’arte e traduttore. 

L’autore racconta tutto questo dal punto di vista di un “expat”, una persona che non ha deciso di trasferirsi in una nuova città per questioni politiche o economiche, non è alla ricerca di fortuna ma aspetta che le cose “accadano”. L’expat non è cresciuto a Berlino e a Berlino non è mai stato neppure turista, continua a portare avanti la sua vita – lavorativa e non – in una lingua che non è quella del posto.

Nel mezzo, l’autore racconta la Berlino di quegli anni che accoglie generazioni europee alla ricerca della trasgressione e dell’estasi dei rave party. Una città dal passato ustionante che offre abitazioni a basso costo con stanze da riempire, come il proprio futuro. Il vuoto che la città mostra è di fatto qualcosa che non c’è “ancora”.

Difficile dire se è Berlino che cambia, se è Berlino a cambiarci o se sono le persone a cambiare a prescindere da Berlino. 

Come quando in un sogno ci si ritrova in una stanza o in un luogo senza sapere il perché e ci si chiede come si è arrivati fin lì, a distanza di 14 anni, Vincenzo Latronico riscrive la sua storia a Berlino distinguendo un prima e un dopo, il 2009 e il 2023. C’è il racconto lucido di chi non ha avuto paura dell’oblio e adesso racconta una personale fine dei vent’anni consapevole di star mettendo su carta una storia generazionale. 

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Per chiudere una porta, devi lasciartela alle spalle

Se ne Le perfezioni racconta la realtà e i sogni di una generazione disillusa, attraverso uno stile linguistico e grammaticalmente costruito, ne La chiave di Berlino compie un’opera di non fiction che rompe l’illusione di una scrittura che gira intorno a qualcosa, a un tema. Latronico non descrive, non indica, non mostra, ma racconta. Manca l’arrivo dell’inverno, il freddo pungente, l’inconfondibile odore della U-Bahn. Ma Berlino è lì. La sorpresa è scoprire, insieme all’autore, che mentre si pensa al passato in realtà ci si sta interrogando sul futuro.

Ormai sono in qualche modo rassegnato all’idea che sono rimasto troppo a lungo per tornare senza strappo; ma anche restare è uno strappo. Nei momenti migliori, questa bilocazione mi sembra una fonte di ricchezza, un regime di vita con un alto costo emotivo ma, anche, un orizzonte più vasto. Negli altri momenti vivo strappato.

Trasferirsi in una città che non è la propria, è come vivere lasciando aperte le porte della propria vita. Tuttavia Berlino è una città che in qualche modo risolve le questioni sospese che portano le persone fin lì. O almeno ridimensiona la realtà riportandoci al “qui e ora”. Esiste una chiave di Berlino che, a ben guardarla, lascia dubbiosi sul suo utilizzo e sulla sua efficacia. Il suo funzionamento è in realtà molto semplice. La sua particolarità è data dal fatto che ha due punte, una a ogni estremità della chiave, invece della classica punta unica: dopo aver sbloccato la serratura, la chiave deve essere spinta recuperata dall’altro lato. Per chiudere una porta, devi lasciartela alle spalle. Forse è per questo che Berlino aiuta a sentirsi leggeri.

La ragione è una scommessa: non una certezza che hai dietro di te, ma una speranza davanti.

La chiave di Berlino (acquista qui) è un atto d’amore a una città spezzata ma pronta a rimetterti a posto. Vincenzo Latronico riscrive il suo percorso personale in modo schietto e, per questo, autentico. È un romanzo che non segue una mappa precisa, ma si scopre pagina dopo pagina. Dedicato a chi non sa cosa vuole, ma sa benissimo cosa non vuole, ed è alla ricerca di uno spazio in cui non si è obbligati a incollarsi sulla fronte un’etichetta. Berlino è il rifugio.

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Serena Votano

Serena Votano, classe 1996. Tendenzialmente irrequieta, da capire se è un pregio o un difetto. Trascorro il mio tempo libero tra le pagine di JD Salinger, di Raymond Carver, di Richard Yates o di Cesare Pavese, in sottofondo una canzone di Chet Baker, regia di Woody Allen.

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