Come nasce la letteratura? Per rispondere a questa domanda, si pensi a quanto è accaduto ad Alonso Quijano, un hidalgo spagnolo della Mancia che grazie ai romanzi cavallereschi ha riscattato una vita di solitudine e tedio. Quell’hidalgo spagnolo è conosciuto come Don Chisciotte della Mancia, ed è la riprova di come la letteratura sia nata come mezzo per dare una seconda possibilità a chi non l’ha mai avuta, ma soprattutto per fare giustizia quando a dilagare è l’ingiustizia.
Raccontare storie è l’atto più primitivo che ci sia: si raccontano storie per far rivivere chi non è più tra noi, per permetterci di vivere una seconda – e migliore – vita, ma soprattutto per punire i disonesti. È a questo tipo di letteratura che si rifà l’esordio di Nicolò Moscatelli, I calcagnanti (La Nave di Teseo, 2023), vincitore del Premio Italo Calvino nel 2022.
«I calcagnanti»: la trama
Nel paese immaginario di Dorvio, ai piedi dell’altrettanto immaginario fiume Egro, vive un bambino di nome Timoteo. Abita nella Casa della Buona Volontà, una sorta di bordello, assieme al suo coniglio Sansusì, il cuoco fra’ Gaetano, la vecchia Pia, e donne come la Ninetta, la Moresca e Madame. Timoteo vive con il sogno di affrontare avventure come quelle dei calcagnanti, uomini fuorilegge, banditi che uccidono re e baroni per portare un po’ di giustizia nella società.
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Un giorno, però, il protagonista – come già anticipato all’inizio del libro – trova un uomo morto nel canale: un gendarme. L’evento scombussola gli equilibri all’interno del paese, e Timoteo avrà l’occasione di vivere le sue avventure. Questa è la trama di I calcagnanti, un romanzo cavalleresco i cui protagonisti sono picari in cerca di riscatto con il libro e la letteratura in una mano e il saccagno – un coltello, secondo il linguaggio del contrappunto o della serpentina, lingua in codice dei calcagnanti – nell’altra.
Una sorta di laica e beffarda utopia
I calcagnanti rientra in un solco percorso da autori già in lizza al Calvino come Oceanides di Riccardo Capoferro (Il Saggiatore, 2021), Vita breve di un domatore di belve di Daniele Santero (Elliot, 2021) e Cronachetta infame del giardino di San Leonardo di Gian Primo Brugnoli (Caracò, 2023). Dei primi due Moscatelli riprende la forma del romanzo d’avventura, usato come espediente per smascherare le narrazioni ufficiali, mentre rispetto al secondo l’autore di Cantù si rifà al tono popolare e folkloristico proponendo storie della marginalità raccontate attraverso una lingua inventata di sana pianta che spesso attinge alla tradizione dialettale nostrana.
Moscatelli, inoltre, gode di accostamenti ad autori come lo stesso Italo Calvino e a Dario Fo, non soltanto per l’aspetto di reinterpretazione delle tradizioni popolari, ma anche per la ripresa della tradizione carnescialesca e delle ballate, che propongono storie dal sapore leggendario alle volte con tono canzonatorio per restituire giustizia agli oppressi. Come Dario Fo, anche Moscatelli prova a operare un suo rovesciamento della società dando gli strumenti dell’oppressore agli oppressi, ovvero permettendo loro di creare una controstoria, una realtà dove possono avere la giustizia che meritano. Come ha affermato infatti la giuria del Premio Calvino, I calcagnanti intende creare una sorta di utopia anarchica dove gli emarginati possono sentirsi liberi:
[…] un romanzo che costruisce con straordinaria sapienza linguistica e culturale un mondo fantastico, che mescola e fonde tratti di tanti altri mondi fantastici della tradizione narrativa e popolare italiana e non solo, quella carnascialesca e del mondo alla rovescia: un racconto accattivante che con spirito anarchico trascina il lettore, proponendo anche, sotto traccia, una sorta di laica e beffarda utopia.
L’impresa di Moscatelli, dunque, è stata quella di tornare alla forma del puro racconto e della pura narrazione attingendo non solo a una tradizione letteraria ormai consolidata, ma anche inventandosi una lingua nuova, dimostrando come sia ancora possibile fare letteratura e parlare del nostro presente senza necessariamente dover ricorrere a forme trite e ritrite come l’autofiction.
Timoteo e le storie dei calcagnanti
Timoteo, dunque, ha sempre vissuto con il mito di eroi che allo stesso tempo erano anti-eroi: fuorilegge come Wolfango il Broino, il Gatto con gli Stivali, fra’ Cortella e Giovan Zisca, «uomini dal cuore nobile e impavido nel quale portavano accesa la fiaccola dell’idea più nobile di tutte, che è quella di uccidere i re». I calcagnanti sono eroi perché avventurieri, capaci di evadere dalle costrizioni sociali e in grado di regalare possibilità di vita migliore fuori dalle costrizioni dei potenti.
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Le storie dei calcagnanti assumono importanza in quanto, come la grande letteratura, dimostrano come un mondo diverso sia possibile, ma allo stesso tempo dimostrano come chi è privo di potere possa creare questo mondo diverso e rovesciato, dove i ricchi e potenti sono i cattivi e i fuorilegge e gli ultimi sono i buoni. Questo è ciò che sembra aver capito il barone Raimondo, in quanto «le fiabe danno strane idee», al punto che ha proibito alle serve di raccontarle alla figlia Matilde.
Una controstoria calcagnante
Se il barone Raimondo ha paura delle storie di fuorilegge come quelle raccontate da fra’ Gaetano oppure quelle del teatro dei burattini dello Zorzi, è perché quest’ultimi con le loro storie propongono una controstoria popolare, che cerca di sovvertire l’ordine costituito stimolando il popolo ad avere coscienza di sé e del proprio valore:
Secondo fra Gaetano le streghe non esistevano, ma se esistevano erano socialiste e il problema non erano loro ma i principi, che fossero azzurri o di qualsiasi altro colore. A dire la verità non sembrava gli dispiacesse troppo quando la vecchia Pia raccontava le sue fiabe a Timoteo, anche se erano meno avvincenti di quelle della Ninetta, e sebbene bofonchiasse a volte i suoi “baggianate, baggianate da beghine” diceva anche che le storie del popolo erano più importanti di quelle che i signori scrivevano nei loro libri, e che il giorno che i padroni fossero riusciti a portare via tutte quelle storie e il popolo se le fosse dimenticate e avesse potuto solo comprarle un tanto alla pagina, sarebbe stato il giorno che i padroni avevano vinto.
Per fra’ Gaetano, le storie non dovrebbero finire con il canonico «e vissero tutti felici e contenti», ma con un «finché non finirono tutti alla ghigliottina», e se «c’era una volta un re», bisogna ricordarsi che «non ci sarà per sempre». Così affermando, fra’ Gaetano sovverte l’ordine imposto dalla storia ufficiale, che vuole i re e i principi vittoriosi e per sempre padroni dell’ordine costituito, e le streghe e i banditi puniti per sempre, quando in realtà quest’ultimi sono semplicemente vittime delle costrizioni sociali, incapaci di proporre la propria visione del mondo, di raccontarsi agli altri e di tramandare le proprie tradizioni.
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L’unica anticipazione che si può dare di questo romanzo è che, dopo aver trovato il cadavere del gendarme, a Timoteo si pongono due possibilità: unirsi ai potenti o ai calcagnanti. Decide di passare dalla parte di quest’ultimi, in quanto stigmatizzati e silenziati dai potenti, e di imparare il loro linguaggio e assimilare i loro racconti e le loro gesta per metterle un giorno sotto forma di qualcosa di più elaborato dei suoi disegni sulle pareti della sua camera, affinché sia lui a poter scrivere il vero lieto fine: «e vivremo felici e contenti finché non ci sotterreranno»: l’uso del futuro invece del passato, perché le storie popolari non devono morire mai.
Dell’arte e dell’inganno calcagnante
Nicolò Moscatelli con I calcagnanti (acquista) ci regala un libro a dir poco incentrato sul piacere di raccontare storie. L’autore ha riformulato la tradizione del romanzo d’avventura da un lato e quella carnescialesca e giullaresca dall’altro per farci capire ancora una volta quanto potente sia la forza delle storie e della letteratura, capaci di sovvertire l’ordine costituito per dare a chi ha subito ingiustizie non solo la possibilità della libertà, ma anche del lieto fine. I vinti e gli emarginati continueranno a esistere e a vincere sui potenti soltanto se c’è qualcuno disposto a raccontare le loro storie, e soltanto se la letteratura continuerà ad esistere. Una letteratura, però, che sappia inventare infiniti mondi e infinite possibilità, e che non sia sempre e solo quella autoreferenziale e autofinzionale a cui ormai siamo abituati.
Fra’ Gaetano sarebbe andato orgoglioso di lui, perché in questo modo tanta altra gente avrebbe imparato le storie di quegli eroi che si erano battuti per le nobili idee. E se poi anche lui fosse diventato un bandito, che era uno dei suoi principali progetti per il futuro, avrebbe potuto fare ancora di meglio: raccontare, cioè, le storie proprie, cosa che a quanto sapeva nessuno aveva mai fatto – così il suo repertorio anziché esaurirsi sarebbe sempre cresciuto, e inoltre il teatro gli avrebbe permesso di svagarsi un po’ quando si fosse stancato di uccidere i re e viceversa, e in questo modo non si sarebbe annoiato mai.
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