Quando si parla di Groenlandia, si pensa solitamente a un paese noto per la sua natura selvaggia, i suoi ghiacciai, i villaggi dalle casette colorate, la cultura vichinga e quella inuit. Non tutti sanno, però, che questo paese, dipendente dalla Danimarca ma sotto la Home Rule dal 1979, detiene il triste record di suicidi fra i giovani. Tante sono le teorie a riguardo: secondo alcuni studiosi, ad esempio, l’alto tasso di suicidi è da ricondurre alla costante esposizione del paese alla luce del sole, che interrompendo il ciclo del sonno e creando squilibri nella produzione di serotonina potrebbe portare al delirio e al suicidio.
In realtà, una motivazione del genere è molto riduttiva, e nemmeno attribuire la colpa al colonialismo danese è sufficiente a motivare un gesto così estremo compiuto fra i più giovani. A questo proposito ha cercato di dare una risposta l’autrice groenlandese Niviaq Korneliussen, che nel 2021 ha vinto il Premio del Consiglio Nordico con La valle dei fiori (Iperborea, 2023), incentrato proprio su questa importante questione sociale.
La trama di «La valle dei fiori»
La valle dei fiori si svolge fra la Groenlandia – la capitale Nuuk e il villaggio di Tasiilaq – e la Danimarca,in particolare la città di Aarhus. La protagonista è una donna senza nome. Ha origini inuit, è fidanzata con Maliina e si prepara ad affrontare i suoi studi in antropologia all’università in Danimarca. Allo stesso tempo, deve confrontarsi con se stessa, la sua identità e il suo sentirsi estranea in mezzo agli altri.
Un tragico evento che coinvolge la famiglia di Maliina – il suicidio della cugina Gudrun, ed è l’unico evento che anticiperemo della trama del romanzo – la costringe a tornare in Groenlandia. La donna si interrogherà spesso sulle cause di questo evento, arrivando persino a scandagliare la memoria del suo passato, fatta di solitudine e disagio. Per la protagonista sarà l’inizio di un vortice di dolore che molto probabilmente la condurrà a un punto di non ritorno.
«La valle dei fiori»: romanzo post-coloniale?
Leggendo la critica italiana attorno a La valle dei fiori, la prima cosa che salta all’occhio è il fatto che tutti parlano di questo libro come di un romanzo «sui giovani Inuit che si suicidano», lasciando intendere che Niviaq Korneliussen abbia voluto scrivere un romanzo post-coloniale che si focalizza sulla perdita di identità dei groenlandesi e degli Inuit. In realtà, però, sebbene faccia riferimento alla colonizzazione danese e all’identità etnica degli Inuit, Korneliussen non entra nel merito della vicenda, in quanto, come spiega la traduttrice Francesca Turri nella sua postfazione al romanzo, l’autrice «preferisce concentrarsi sui destini individuali della costellazione di personaggi delineati nel romanzo», che allo stesso tempo si fanno universali e portavoce di un disagio condiviso, ovvero dell’incapacità delle istituzioni groenlandesi di prevenire i suicidi e di dare adeguato supporto psicologico.
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Questo concentrarsi sul disagio sociale e, dunque, ignorare i discorsi post-coloniali era già evidente nel primo romanzo di Korneliussen, HOMO sapienne (2014, inedito in italiano), dove in inglese il protagonista parla di «Enough of that post-colonial piece of shit», una dichiarazione di intenti sulla rinuncia a ogni discorso retorico sull’identità culturale da un lato e sulla volontà di rappresentare un mondo globalizzato – che Korneliussen manifesta attraverso il plurilinguismo e il riferimento ai social network – dall’altro in cui i problemi sociali della Groenlandia riguardano anche il resto del mondo.
Da “Loro” a “Io”
L’autrice opera una sorta di individualizzazione universalizzante della vicenda, evidente non solo nella narrazione in prima persona e nella mancanza di nome per la protagonista, ma anche nella struttura del romanzo. Il romanzo, infatti, è strutturato in 45 capitoli che procedono con un conto alla rovescia che segna la caduta inesorabile della protagonista verso la probabile fine imminente che le spetta e che è ben rappresentata da una prosa che si fa sempre più vorticosa e che lascia senza fiato.
I capitoli si spalmano fra tre parti del romanzo, intitolate “Loro”, “Tu” e “Io”, e i loro titoli alternano elenchi di casi di suicidi a resoconti e riflessioni su di essi e a testimonianze dei suicidi stessi. Questa struttura, dunque, è individualizzante e universalizzante in quanto, nel rappresentare un destino individuale – quello della narratrice –, al contempo riesce a interessare molte più persone. Questo, d’altronde, è l’intento di Korneliussen, come traspare nel suo discorso per il conferimento del Premio del Consiglio Nordico:
Abbiamo un sistema ripugnante, che vi costringe a scegliere tra la vita e la morte. La verità è che il vostro posto in questo mondo è quanto di più importante ci sia. E noi adulti, noi non siamo niente senza di voi. Quindi mi scuso da parte di tutti gli adulti responsabili per voi. Scusateci perché troppo spesso siete lasciati a voi stessi.
La denuncia di un sistema assente
È questo, dunque, il punto del romanzo di Korneliussen: la mancanza di istituzioni adeguate a prevenire i suicidi dei tanti giovani groenlandesi che costituiscono una vera e propria piaga sociale. Come evidenzia la protagonista, infatti, «la Groenlandia arriverebbe a 82 suicidi per 100.000 abitanti», e sembrerebbe addirittura che i giovani non ricevano adeguato supporto psicologico. Episodio chiave è l’incontro di Maliina con un medico danese sulle cause del suicidio di Gudrun, che lascia intendere una sorta di negligenza da parte delle istituzioni sanitarie nei confronti di questo problema:
“Non è che possiamo riempire l’ospedale di giovani che prendono pillole, non c’è abbastanza posto. Devono rivolgersi al comune e chiedere aiuto lì, qui abbiamo troppe cose di cui occuparci. […] Quindi no, non possiamo aiutarli tutti! Anche i genitori devono prendersi delle responsabilità»
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Da parte delle istituzioni c’è quindi l’intenzione di scaricare sempre la colpa sugli altri, senza assumersi le responsabilità del caso. Un altro elemento interessante, già menzionato all’inizio dell’articolo, è anche la questione della luce estiva, un’altra motivazione che non soddisfa la narratrice, e che è indice ancora di cecità nei confronti del suicidio:
I ricercatori concludono che il fattore scatenante deve essere correlato alla luce estiva, ipotizzano che quella stessa luce che scongiura la depressione invernale possa portare al suicidio. I dati mostrano che il metabolismo della serotonina varia in base alla stagione e alla luce, e che potrebbe avere qualche influsso sui comportamenti impulsivi e aggressivi, e dunque su violenza e suicidi. Ma la luce non può essere il fattore decisivo: la luce c’è sempre stata, mentre i suicidi hanno subito un’impennata solo dopo l’epoca coloniale.
La protagonista nota anche come i suicidi siano aumentati dopo il processo di decolonizzazione della Groenlandia. È vero che, a seguito della decolonizzazione, la Groenlandia si è trovata subito catapultata in un mondo globalizzato senza adeguate risorse per affrontarlo, e di conseguenza molti giovani si sono visti catapultare in uno smarrimento senza precedenti e senza prospettive di un futuro migliore, ma Korneliussen decide di non entrare nel merito, in quanto anche la questione coloniale, liquidata in due righe, non basta a risolvere la piaga del suicidio, avendo questi motivazioni ben più profonde.
Truth is: non ho un nome, sono solo un numero
Ciò che vuole far intendere Korneliussen è che non solo i giovani groenlandesi sono privati di un posto nel mondo e sono incapaci di prendere in mano la propria vita, ma sono anche circondati dall’indifferenza e da una generale mancanza di empatia, la vera causa di questi suicidi. Questa indifferenza è tristemente evidenziata nel titolo del ventiduesimo capitolo, che recita nel seguente modo:
Ti ricorderemo per sempre, scrivono taggandoti su Facebook, ma truth is che solo una minima parte lo farà davvero. Gli altri continueranno a vivere, continueranno a scrollare i loro feed, e si ricorderanno di te per un attimo solo quando gli sembrerà di averti vista in città. E allora penseranno ah, no, lei non c’è più.
Dopo i lettori, anche la narratrice stessa si rende conto del proprio anonimato. Si rende conto di come tutti quelli che le volevano veramente bene – nonna Helena oppure l’amico Angutivik – ormai non ci sono più, e chi ancora esiste e ancora la ama come Maliina o i suoi genitori è incapace di ascoltare il suo disagio. La depressione della narratrice raggiunge il suo culmine nel momento in cui visita la Valle dei Fiori, dove sono seppelliti i giovani suicidi della Groenlandia:
Mi fermo a guardare le lapidi e le targhe per capire a che anno sono arrivata. Sulle prime che esamino non c’è scritto nulla: Avanzo e vedo un volto che sanguina inchiostro, l’interno della cornice si è bagnato. Mi affretto verso la fila più recente, dove la terra è ancora smossa sopra la neve, e dove l’azzurro, il rosso e il rosa stridono più che altrove. Mi giro e do un’occhiata d’insieme alle tombe, e noto che nessuna ha nomi o date. Mi avvicino a una e sollevo la ghirlanda per esserne sicura. C’è un numero. Mi sposto velocemente da una tomba all’altra. Sono tutte numerate. Tombe anonime ricoperte di plastica.
Osservando questo cimitero con lapidi senza nome, senza data di nascita e di morte, con solo numeri e fiori di plastica, la narratrice realizza di essere «un numero che si dimentica, che scompare quando continui a contare». Il motivo per cui, pertanto, aumentano i suicidi è perché la società considera gente come la narratrice dei numeri che vanno e vengono, che spariscono con l’avanzare del tempo, numeri come tanti su cui è inutile soffermarsi e di cui è inutile interessarsi. È per questo che Korneliussen passa da un “Loro” a un “Io”: per farci capire che quel numero senza nome potremmo essere noi, e che laddove le istituzioni sono sorde, le persone attorno a noi devono imparare ad ascoltare e ad accogliere il dolore dell’altro.
«La valle dei fiori»: nel paese che ama vedere gli altri cadere
La valle dei fiori (acquista) affronta con una prosa alle volte cruda e ironica e alle volte poetica un tema delicato come quello del suicidio senza essere banale e retorico, ma rappresentando la realtà per quella che è veramente. Se i giovani groelandesi sono spesso inclini al suicidio, è perché il loro paese «ama vedere gli altri cadere», senza dare loro la possibilità di riappropriarsi della propria vita. Laddove, allora, le istituzioni falliscono, Korneliussen chiama in causa tutti noi, chiedendoci di non volgere lo sguardo altrove, ma di immaginare il dolore di chi si toglie la vita troppo presto, e attraverso l’ascolto prevenire che ciò avvenga nell’indifferenza più totale.
Non c’è scritto quand’è nata, quand’è morta, non c’è scritto di chi è. Poso una mano sulla croce, mi sembra sbagliato. Faccio alcuni passi indietro e la osservo, poi alzo lo sguardo, su, su, su, fino alle montagne, dove d’estate sbocciano i fiori veri della Valle dei Fiori. Come mi chiamo? Non ho un nome, sono solo un numero.
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