«Non praticare il cannibalismo» e altri consigli utili: la poesia di Ron Padgett

Le poesie degli ultimi vent'anni della produzione del poeta americano

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Non praticare il cannibalismo

Per una felice intuizione di Del Vecchio Editore, Ron Padgett approda in Italia. Non praticare il cannibalismo (acquista) è la raccolta che ripercorre gli ultimi vent’anni della produzione poetica dell’autore: da You Never Know del 2001 ad Alone and Not Alone del 2015. Selezione operata dallo stesso Padgett che rivela un sunto della sua arte poetica più matura e strutturata.

Primo consiglio: instaura un’esperienza di lettura piacevole e conviviale

I brevi componimenti – ad esempio Haiku – si alternano a veri e propri poemetti – si pensi a L’enorme incredibile ingiustizia del mondo oppure a Come essere perfetti. In particolare, in quest’ultimo componimento – fra i più famosi dell’autore – viene redatta una lista di consigli aforistici fra il serio e il faceto per risultare perfetti, o perlomeno migliori. Il motto in esergo di Kerouac («Ogni cosa è perfetta, amico mio») introduce il lettore ad un’atmosfera conviviale, distesa. Il verso in questo caso è frammentario.

Piccole prose istantanee sono completate da suggerimenti più o meno strutturati, il che conferisce al tutto un dialogo in divenire, apparentemente non ragionato. Una poesia, in questo caso, immediata e godibile ad un vasto pubblico che, tuttavia, cela un’anima particolarmente sensibile alle esigenze umane del quotidiano.

Non aspettarti che i tuoi figli ti amino, affinché possano farlo, se vogliono.
Medita sulla spiritualità. Poi vai un po’ più in là, se te la senti.
Cosa c’è là fuori (dentro)?
Canta ogni tanto.
Sii puntuale, ma se sei in ritardo non dare giustificazioni lunghe e dettagliate.
Non essere troppo autocritico o troppo autocelebrativo.
Non pensare che il progresso esista. Non è così.
Fai le scale a piedi.
Non praticare il cannibalismo.

Secondo consiglio: da poeta rendi il lettore poeta a sua volta

Padgett più di una volta riesce a rendere il lettore poeta, in quanto anche il solo gesto di avvicinare la persona alla poesia la spinge ad ascoltare – per usare le parole di Wallace Stevens – «nel delicato orecchio della mente».  Spesso Padgett, come nel suggestivo saggio in apertura in volume, si interroga sul vero senso della poesia. Perché scrivere? L’inutilità del gesto – come già prospettata da Pasolini e altri – viene liquidata in maniera sì scanzonata, ma anche profondamente consapevole: «Ci sono persone che, non riconoscendo assolutamente nessuno scopo allo scrivere poesia pensano che sia un modo in cui delle persone strampalate perdono il loro tempo. E anche in questa visione c’è della verità».

La poesia, dunque, a volte appare troppo astratta, lontana dalle esigenze giornaliere. Padgett, interrogando il suo io e il mondo che lo circonda, però, riesce a scardinare questi stereotipi. Il suo è un realismo atipico, lontano dai generi classici canonici – nonostante ne sia un estimatore – e al contempo distante alle avanguardie novecentiste – nonostante, anche in questo caso, ne sia debitore per la sua formazione. Come precisa Riccardo Frolloni nel saggio in appendice al volume, l’obiettivo dell’autore è quello di «ridare alla poesia il suo valore comunicativo, di liberazione dell’espressione dell’io [; dunque significa] recuperare il dialogo tra gli uomini, quasi che la poesia si trasformi in puro medium, puro strumento di connessione tra individui in una rete umana reale e non virtuale».

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Ron Padgett e il confronto con la poesia americana

In questo senso, sembrano proseguire il discorso le parole spese da Roberto Sanesi nella sua antologia Poeti americani. 1900-1956: «Contano le poesie, singoli incontri che ogni tanto, quasi miracolosamente, ti parlano ad alta voce, dicono di una “verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato” a cui il cuore si accosta con paura, ma che non può più abbandonare». Sanesi, a sua volta citando Saba, annuncia in maniera premonitoria quella che sarà la poesia nordamericana dei decenni a venire.

Dalla Beat Generation, dedita alla «ricerca di una sorta di mente originaria, o mente cuore» – per utilizzare le parole di Ginsberg – per passare poi agli sperimentalisti della Black Mountain ai poeti della East Cost. Le correnti sono innumerevoli e non sempre è facile catalogare un autore al loro interno. Questo è il caso di Ron Padgett. Esponente di una poesia a cui, almeno in Italia, non siamo abituati – o forse siamo stati disabituati col tempo. Il poeta non si accontenta di trasporre su carta fatti già accaduti: quelli, infatti, sono riportati con distorsioni e dovizia di particolari nei giornali. Per Padgett – per citare la sua Qualunque cosa sia –:

una poesia vera abita nella sua
casetta che si sposta lungo
il paesaggio che scorre
lungo il pensiero del lettore,
e nessuno l’ha mai vista

Terzo consiglio: ragiona sulla morte, ma non farne una malattia

Un dialogo, perciò, instauratosi con un umile maestro che con il metodo del bastone e della carota – ma sempre bonariamente e in maniera giocosa, umoristica – alleva il suo pubblico secondo alcuni insegnamenti. Nell’autore non vi è pretesa di cristallizzare verità, piuttosto di accompagnare il lettore in quello che è il viaggio istantaneo della vita («È stata veloce. / Intendo la vita.») senza alcuna pretesa metafisica («così che niente assolutamente niente / significa qualsiasi cosa / perché è ciò che Dio vuole / e vuole che tu lo sappia / perché ti odia davvero / e vuole che tu sappia anche questo»).

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Come emerge piuttosto chiaramente, un ambito tematico che spesso emerge nella poetica di Padgett è proprio quello della mortalità, l’evanescenza dell’attimo e della consapevolezza ineluttabile della fine. Questa viene meditata tramite i lutti personali, ma anche attraverso suggestioni quotidiane e impressioni culturali. Si prenda ad esempio Lo scherzo, componimento che ruota intorno alla figura di Cristo – spesso citato da Padgett come una sorta di archetipo:

perché l’idea dell’immortalità
che è il diritto con cui nasce ogni essere umano
svanisce gradualmente
finché è andato
e noi piangiamo.

Quarto consiglio: ogni momento è buono per creare

Padgett si spoglia delle ipocrisie per mostrare il mondo nella sua nudità. La dualità fra uomo e poeta si fa sempre più sottile, fino quasi ad essere irriconoscibile. L’Autore sembra aver capito la lezione impartita da Harold Bloom, analizzando la poetica di John Ashbery: «L’anima è “un prigioniero”, ma è l’arte piuttosto che il corpo a fare la parte del carceriere». D’altronde, come Padgett scrive in Il poeta, uccello immortale:

Un attimo fa salta il battito
e penso, “Sarebbe un brutto momento
per avere un infarto e morire, nel pieno
di una poesia”, poi mi ha confortato
l’idea che nessuno, che io sappia
è mai morto nel pieno della scrittura
di una poesia, proprio come gli uccelli non muoiono in volo.
Credo.

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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