Vederla dall’alto fu come affacciarsi sul mondo. Era così bello da sembrare impossibile e fui convinto di non farcela. Sentii la schiena tremare e le braccia crollare. Strinsi gli occhi, poi le labbra, e immaginai di stringermi tutto fino a chiudermi in me stesso e diventare un puntino e sparire.
“È così che succede”, pensai.
Alzai la testa verso il soffitto e aprii gli occhi. La stanza era scura, fuori stava facendosi buio. Di abbassare la testa non avevo il coraggio, non volevo guardarla per ammettere che avevo avuto paura di vivere.
Feci l’unica cosa che in quel momento mi veniva naturale: respirare. Ma lo feci fortissimo, perché nell’aria ci misi più frustrazione che ossigeno.
Allungò una mano verso il mio braccio e sentii le sue unghie grattarmi la pelle.
«Che hai?».
Non risposi, non la guardai.
«Ue… che tieni?».
Le unghie mi bucarono la pelle, poi mi accarezzarono la mano.
«Non fare il cretino e guardami».
Abbassai la testa: lei era lì sotto a sorridermi. Mi chiese di avvicinarmi e io mi avvicinai. Mi baciò stringendomi forte le guance con le mani, cercando la mia lingua con la sua. Il suo alito al tabacco mi entrò dentro e mi scaldò gli organi. Alla fine ci guardammo; Claudia era tutta un sorriso più grande di lei, che le chiudeva gli occhi a mandorla e le scolpiva minuscole fossette sulle guance. Pensai che Claudia era quel sorriso e che quando mi sarebbe mancata avrei voluto ricordarla così.
Glielo dissi senza neanche sapere il perché.
«Mi è sembrato di baciare un pacco di Pueblo».
Rise di gusto. Con una mano si coprì la bocca e con l’altra mi colpì la pancia.
«Guarda che sei tremendo!».
Risi anche io e finalmente mi sentii leggero, non tanto perché eravamo lì, a letto insieme, ma perché lei era così, mentre io ero l’esatto opposto. Pensai che ci completavamo e che insieme eravamo perfetti, anche se insieme non ci stavamo e non sapevo nemmeno esattamente in che rapporto fossimo. Sapevo solo di piacerle, tanto, perché così mi aveva detto, e anche lei a me piaceva tanto, tantissimo, con i suoi gesti decisi e sfuggenti e le labbra e il naso piccoli come quelli di una lepre. E quando stavamo insieme era così bello che sembrava che lei, Claudia, venisse da un pianeta senza tempo né orologi e mi piaceva immaginarla in questo modo. Una creatura misteriosa, straniera, lontana.
Mi passò una mano dietro la nuca, tra i capelli, poi mi avvicinò al suo orecchio. Le baciai il lobo, lo morsi. Passai al collo con la sua mano a guidarmi, diedi dei piccoli morsi e lo baciai, più volte, e più baci davo più sentivo che le piaceva e allora scesi più in basso. Affondai la lingua e il naso tra i seni. Era leggermente sudata e mi piacque da morire; il suo odore mi entrò dentro fino a farsi sapore. Chiusi un capezzolo tra i denti e l’altro tra due dita. Strinsi più forte e quando Claudia sentì dolore mi tirò i capelli. Gemeva.
Mi alzò la testa prendendomi dal mento, puntandomi addosso uno sguardo ostinato ma pieno di desiderio.
«Tirati su».
Mi alzai sulle braccia. Me lo prese in mano, ed era durissimo, lo toccò un poco e se lo mise dentro. Mi affondò le mani nei fianchi, le sue unghie nella mia carne. La mia carne dentro la sua. Chiusi gli occhi e la sentii godere e non pensai a nulla, se non che mi sembrava di avere vissuto solo nell’attesa di quel momento.
Venne prima lei, ansimando, graffiandomi i fianchi quasi fino a sanguinare.
Poi mi parlò tra le labbra, a bassa voce, la testa e i capelli sfatti affondati nel cuscino, gli occhi seri e vivaci.
«Quando vieni, guardami negli occhi».
Così feci, le venni sulla pancia e quando finii mi sdraiai al suo fianco, sfinito.
Il buio avvolgeva la stanza e a illuminarci c’era solo la luna, alta in cielo e bianca come un’ostia. Voltai la testa e trovai Claudia che già mi guardava. Con un gesto vago si indicò il corpo.
«’Sta schifezza ora me la pulisci tu?».
Le risposi che quella schifezza era tutta colpa sua.
«Hai ragione, il problema è che ti piaccio troppo».
Mi venne voglia di vederla infastidita.
«Non credo» dissi.
«Ah già, a te non ti piace mai niente».
«Non è vero».
«Appunto, ti piaccio io».
«No».
«Non ti piaccio?».
Si era sdraiata di lato, il braccio sul cuscino e la testa lungo il braccio. I suoi occhi erano fissi nei miei.
«No».
Mi puntò con il suo nasino, piegandosi leggermente in avanti a sottolineare il peso delle parole: «Invece ti piaccio, e anche tanto, e a non ammetterlo ti rendi solo ridicolo!».
Sorrisi e le baciai la punta del naso. Lei fece finta di evitarmi e tornò a sdraiarsi. Accese una sigaretta già rollata e si ritirò sotto le coperte. Il gesto mi fece venir freddo e la seguii.
Restammo in silenzio, sentivo solo i suoi tiri e la combustione della sigaretta.
Ma era un silenzio bellissimo, quello. Perché non spaventava, non precedeva un salto nel vuoto. Era un silenzio d’amore.
O almeno, così mi venne da pensare e l’idea mi piacque parecchio. Mi sembrò di stare sospeso nel mare, lontano da tutti, il viso verso il cielo e il corpo nell’acqua e il silenzio a tenermi a galla. Una pausa da tutto, perché è nei momenti di pausa che il mondo respira e tutto matura.
Guardai la luna e la sua luce che dal cielo entrava nella stanza. Mi domandai se Claudia pensava a me e lei come a un noi – ciò che stavo facendo io in quel momento. Pensai che anche questa storia, la nostra, sarebbe maturata e sarebbe stata stupenda perché già adesso era bellissima, e con il tempo sarebbe solo migliorata. Immaginai di stare con lei, di andare in mondi lontanissimi e fare l’amore in posti impossibili; il futuro si fece così facile e vicino che mi sentii pronto ad afferrarlo. La strada della fantasia, per un cuore che batte, non ha fine.
Ebbi un brivido di freddo, forse per le coperte a contatto con il mio corpo nudo. Spostai gli occhi alla finestra per vedere se fosse aperta, e nel nero della notte c’era solo il bianco della luna. Seguii la sua luce entrare nella stanza e mi venne un altro brivido. La luce della luna entrava nella stanza e tutto, le pareti, i mobili, gli oggetti, il letto, il mio corpo e quello di Claudia, tutto proiettava un’ombra buia, lunghissima, deforme.
Ebbi paura di perderla. Di perdere Claudia, e con lei fantasia e futuro. Che il momento appena vissuto e tutti gli altri futuri sarebbero diventati orrendi come quelle ombre, buie memorie di un passato confuso, dove con gli anni mi sarei rifugiato con la nostalgia di quando ci si abitua a vivere a spese degli altri. Ma io di Claudia, di quella gioia, non volevo fare a meno. Non ero pronto.
Affondai la testa nel cuscino. Claudia aveva finito di fumare e si era girata di lato, forse dormiva. Le guardai la schiena, sinuosa e liscissima, percorsa da piccoli nei incastonati come diamanti nei punti giusti. Pensai che dovevo parlarle, che era il momento giusto per dirle che forse l’amavo.
Allungai una mano verso il suo fianco ma la ritrassi subito.
Avevo avuto paura, ancora. Mi sentii inerme, imprigionato dalle ombre deformi della stanza, indifeso come dopo un’espulsione. Il respiro mi pesava sul petto. Aprii la bocca per provare a parlare ma le parole scivolarono dalla testa e si accartocciarono in gola.
Con le mani cercai un rifugio tra le parti più fresche del letto, che nei momenti di panico diventano spesso l’unico aggancio alla vita. Mi venne in mente Nuotando nell’aria dei Marlene Kuntz e iniziai a canticchiarla in testa: «Nel letto aspetto ogni giorno un pezzo di te».
Ero stanco di avere paura, soprattutto di un suo rifiuto. Pensai che in ogni amore c’è sempre un rifiuto e che forse, allora, amore e paura erano la stessa cosa, inscindibili.
Ma dovevo affrontarli. Quegli attimi di incertezza mi sembrarono ben più che attimi: erano la vita stessa.
Mi feci coraggio e non m’importò di suonare ridicolo, decisi di dirglielo, di parlare a Claudia e dirle che volevo che la nostra storia, amore o non amore, non finisse mai.
Mi avvicinai al suo lato del letto. Stavo per chiamarla, ma lei alzò le coperte di scatto e me la trovai in piedi. Teneva le mani sui fianchi, sul volto il suo enorme sorriso.
«Vado a pulirmi lo schifo che mi hai lasciato!».
Tirò le coperte dal letto, se le mise intorno le spalle e la vidi uscire dalla stanza.
Cos’è l’eternità quando il passato è dietro l’angolo?
Racconto di Raffaele Simone
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