Se c’è un genere letterario che continua ancora ad affascinare i lettori, quello è il romanzo d’avventura. Il motivo per il suo successo sono i seguenti ingredienti: il viaggio, la scoperta, e le innumerevoli sfide che i protagonisti devono affrontare.
Nessuno, però, immagina che questo genere sia nato anche per criticare la società di riferimento dei suoi autori. Si pensi, ad esempio, alla satira mordace de I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift contro la voglia di utopia degli inglesi, ma anche a Joseph Conrad e al colonialismo inglese. È a qui, dunque, che torna Riccardo Capoferro, professore di Letteratura Inglese alla Sapienza di Roma e finalista alla XXXIII Edizione del Premio Italo Calvino con Oceanides (Il Saggiatore, 2021), che intenta sviscerare e mostrare la vera natura del romanzo d’avventura e dei resoconti di viaggio.
La trama di «Oceanides»
Oceanides racconta la storia d’avventura di Richard Kenton, personaggio ispirato, come dichiarato dall’autore stesso, al pirata e osservatore scientifico William Dampier (1651-1715). Il contesto è la metà del Seicento, un periodo di grandi scoperte – è l’inizio, infatti, del Grand Tour –, e il protagonista parte per la Giamaica per lavorare in una piantagione di zucchero. Desideroso, però, di conoscere il mondo e in cerca di avventure, anche e soprattutto nel ricordo delle storie dello zio Elijah e delle letture dei resoconti di Antonio Pigafetta e Richard Hayklut, decide di salpare il Pacifico con i bucanieri a bordo della Dunbar.
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Durante le sue avventure, Richard entra in contatto con i popoli degli Shuna e dei Naviganti, ma soprattutto con gli Oceanides, uccelli blu che attirano gli avventurieri «come se avessero il potere di una Gorgone o la capacità di arrestare il tempo». Il protagonista, allora, dedica tutta la sua vita alla ricerca di questi uccelli e del loro potere misterioso, ma molto probabilmente tutto quello che ci viene raccontato è frutto di una menzogna.
«Oceanides»: disamina del romanzo d’avventura
Perché è fondamentale il termine “menzogna”? Perché Capoferro con Oceanides vuole sottolineare il fatto che il genere del resoconto di viaggio sia sempre stato oggetto di commistione fra realtà e finzione per scopi opportunistici. Si legga, ad esempio, quanto scrive l’autore nella premessa al suo saggio Frontiere del racconto (Meltemi, 2007) a partire dai resconti di William Dampier:
Tra i loro lettori [dei resoconti] c’erano anche Daniel Defoe, Jonathan Swift e una folta schiera di pennivendoli in cerca di guadagno; la retorica pseudo-scientifica e il minuzioso descrittivismo di autori come Dampier – spesso patrocinati dalla Royal Society – fecero buon gioco a chi, per ragioni commerciali, mirava a conciliare cultura empirica e meraviglia romanzesca o a chi, come Swift, intendeva criticare il nuovo sapere e i suoi assunti ideologici. In breve tempo il mercato venne inondato non solo dai resoconti di viaggio, ma anche da falsi resoconti e romanzi che ne riproducevano il linguaggio.
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Capoferro utilizza la storia di Richard Kenton per raccontare la nascita del romanzo d’avventura e allo stesso tempo smascherarne la retorica colonialista e imperialista. L’autore, inoltre, mostra come i libri ascrivibili a questo genere siano stati persino finanziati dalla Royal Society nel Seicento, che vedeva in questi resoconti di viaggio un modo per trarre profitto.
«Oceanides» e la meraviglia del viaggio
Capoferro riproduce fedelmente fin dall’inizio ogni stilema del resoconto di viaggio e del romanzo d’avventura. Il viaggio che intraprende Kenton ci viene subito presentato come qualcosa nato per la curiosità del protagonista, un percorso che, parafrasando l’Ulisse dell’Inferno dantesco, è stato realizzato per seguire la virtù e la conoscenza a seguito dell’incontro con un uccello misterioso che ha battezzato “quaum”:
E marciando nella giungla mi venne voglia di dire a tutti che il quaum, con il suo corno rosso sangue, splendeva come un astro, ma che a guardarlo da vicino sembrava un uccello da cortile. Pensai che nel dirlo avrei potuto radunare tutti attorno a me: i contadini di East Coker, i mercanti londinesi, i filosofi naturali; persino il Re. Pensai che nel descrivere ciò che avevo visto avrei potuto farmi un nome. Fu così, quasi senza avvedermene, che diventai un naturalista.
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Il soddisfacimento della propria sete di conoscenza è ciò che muove Kenton nel suo viaggio. Ogni tappa del suo viaggio viene ben documentata: i compagni di viaggio – fra cui il predicatore Samuel Coram e il capitano Aleister Leach –, i popoli indigeni, e soprattutto i luoghi e gli uccelli Oceanides. Kenton descrive i suoi viaggi non solo con acume da naturalista, ma anche con lo stupore di chi esplora terre sconosciute. I termini che prevalgono, infatti, sono “mistero”, “enigma”, e soprattutto “Eden”, e agli Oceanides e alle acque del lago di Darien vengono attribuiti poteri magici. Tutto questo dà al resoconto una patina di meraviglia che, coniugata alla narrazione in prima persona, ribadiscono l’idea di un viaggio che si sta compiendo nel momento in cui lo si sta raccontando.
La menzogna del resoconto di viaggio
È proprio questo aspetto l’oggetto di indagine di Capoferro. Il tono retorico e la prospettiva usata da Richard Kenton tradiscono la natura fittizia del suo resoconto, che l’autore mette in luce a poco a poco. Già all’inizio, infatti, Kenton tradisce la natura della sua storia:
Ora però devo rallentare il passo. Nel metter mano a questo resoconto mi sono prefisso di andare per ordine, di seguire gli stessi principi che diedero forma al mio primo libro, Il nuovo viaggio intorno al mondo. Mi accorgo tuttavia che gli anni hanno rafforzato alcuni ricordi e ne hanno affievoliti altri. Ho tralasciato dati essenziali, a cominciare dal mio nome: un errore piuttosto strano per chi, come me, disprezza fandonie e inesattezze. È dunque ora che mi presenti e che cerchi di conquistarmi la fiducia di voi che avete deciso di leggere la mia storia, tanto più perché la mia reputazione è stata infangata, e se anche i miei diffamatori sono tutti morti, la loro voce, aggrappatasi alla carta, continua a seminare bugie, ad accusarmi di angherie e negligenza. Ma non fraintendetemi: non è l’orgoglio a muovermi, ed è tardi per il rancore. Il mio fine è un altro. Voglio raccontare la mia avventura, dire di cose che susciteranno incredulità di tutti, a cominciare dai filosofi, che troveranno le ragioni per credere proprio in quel che racconterò.
Questo brano ci permette di ritornare al discorso di prima fatto in Frontiere del racconto: Kenton sta scrivendo un nuovo libro – quello che stiamo leggendo – non per raccontare veramente la sua avventura, ma per conquistare la fiducia degli altri, in particolare dei suoi detrattori, e scrive, dunque, per puro opportunismo. Inconsapevolmente, tematizzando spesso la frammentarietà dei suoi ricordi per catturare la simpatia dei lettori, Kenton svela la natura fittizia della sua storia.
Il racconto d’avventura come opportunismo
Lungo il suo racconto, e usando la scusa del suo primo libro, Kenton omette dettagli relativi ai suoi viaggi, preferendo raccontare le cose a sommi capi e tacere, ad esempio, dettagli relativi alla morte dei suoi compagni di viaggio. Questo tema della scrittura è molto presente nel romanzo, e Kenton riflette a riguardo anche e soprattutto in relazione alla Royal Society, in particolare alla figura di William Ray, al quale dice di «non voler perdere la sua fiducia»:
[…] cominciai a fondere il materiale degli appunti in un vero resoconto di viaggio, e a scontrarmi con le insidie della scrittura. Non sapevo ancora quali dati fosse opportuno includere. Avrei dovuto render nota la mia frequentazione dei bucanieri? Avrei dovuto concentrarmi sul viaggio in sé o tessere lunghe descrizioni? A quale tipo di lettore avrei dovuto rivolgermi, alle famiglie borghesi, allettate da luoghi esotici e costumi barbarici, oppure ai filosofi della Royal Society?
Allora diventa chiaro il vero intento di Richard Kenton: raccontare un viaggio che molto probabilmente ha vissuto, ma rimaneggiando il suo racconto con dettagli fantasiosi e dei toni avventuristici utili soltanto a giustificare l’interesse per certi luoghi che, se attirano la giusta attenzione, possono fruttargli successo e ricchezza.
«Oceanides»: smascheramento della finzione
Riccardo Capoferro riesce laddove nessuno è mai riuscito: prendere la tradizione letteraria europea del romanzo d’avventura e, con l’intelligenza e lo sguardo analitico di un vero studioso, sviscerarla e smantellarla nella sua vera natura. Questo è Oceanides (acquista): un romanzo che sì ci riporta in terre lontane e sconosciute, suscitando meraviglia per ciò che racconta, ma che fa luce sulla natura menzognera e finzionale di certe storie, frutto soltanto di una retorica della conquista e del dominio che giustifica il controllo e lo sfruttamento di certi territori.
«Temo di non avere la salute adatta ai viaggi lunghi. Ma parlatemi di questi uccelli» disse con entusiasmo. «Hanno un nome? Li avete battezzati?»
«A dire il vero, no».
«Bisogna battezzarli, Kenton. Sono anfibi, a quanto mi dite, e sono color del mare… Nella mitologia greca cerano ninfe che dimoravano presso le fonti d’acqua. Il loro nome fa al caso nostro. Oceanides. Che ne dite?»
«Suona bene».
«Sì, suona bene».
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