Quando si parla di montagna, si parla di un luogo che, citando poeta romantico William Blake, potremmo definire dotato di una fearful symmetry, una «simmetria spaventosa». La montagna è imponente, immensa, instilla in noi sentimenti di paura e di ammirazione, racchiude in sé le nostre ambizioni verso l’infinito, ma anche il nostro fallimento nel dominare la natura. In Lettere contro la guerra, Tiziano Terzani scriveva infatti che la montagna come il mare «ricorda una misura di grandezza dalla quale l’uomo si sente ispirato, sollevato». Questa grandezza è ciò a cui l’uomo ha sempre aspirato e che continua all’infinito a conquistare sconfitto sempre dalla potenza della natura.
Per la collana “Vite inattese” di 66thand2nd è uscito recentemente Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda di Orso Tosco, autore ligure noto per le sue incursioni narrative e poetiche che ritorna al reportage narrativo dopo quello scritto a quattro mani con Cosimo Argentina per minimum fax, ovvero Dall’inferno. Questo nuovo libro è un ibrido fra saggistica, reportage e letteratura pura che cerca di indagare l’ossessione dell’uomo verso la conquista dell’infinito, qui rappresentato non da una semplice montagna, ma dal Nanga Parbat, un Moby Dick di roccia che ha deciso da sempre le sorti delle vite di chi ha provato a scalarla.
Il contenuto di «Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda»
Il libro è incentrato sul Nanga Parbat, un massiccio montuoso del Kashmir, in Pakistan, alto 8.126 metri. Il suo nome in lingua urdu vuol dire «montagna nuda», mentre in sanscrito è conosciuta come Diamir, «la montagna degli dèi», ma ha anche altri soprannomi: la Montagna Mangiauomini e la Montagna del Diavolo. Una montagna che, per tornare alle parole di William Blake, è spaventosamente simmetrica per essere un luogo di vita e di morte, per far paura ma anche per suscitare ammirazione e fascino.
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Il Nanga Parbat è «ragione di vita e ragione di morte», «un miraggio», «una calamita che fa convergere su di sé storie che hanno origini geografiche e temporali distanti tra loro». Le storie narrate in questo libro sono quelle di Albert Mummery, Willy Merkl, Hermann Buhl, i fratelli Reinhold e Günther Messner, Nives Meroi e Romano Benet, Tomasz Mackiewicz, Tom Ballard e Daniele Nardi. Loro sono uomini e donne che hanno raggiunto la cosiddetta «montagna nuda» o che l’hanno sfiorata trovandovi la morte animati da una forma d’amore chiamata ossessione: quella per la libertà, per la ricerca di un’utopia dell’altrove, ma soprattutto per l’infinito.
Questa […] è stata per me, tra le altre cose, una storia di donne e uomini decisi a leggere il manuale dell’infinità, spesso da soli. Uomini e donne che hanno oltrepassato il giardino incolto delle grandezze e si sono spinti oltre. E dunque questa non poteva che essere una storia di coraggio.
«Nanga Parbat»: punti in comune fra letteratura e alpinismo
Quello di Orso Tosco, scrittore ligure originario di Ospedaletti, non è un semplice reportage su una montagna. È un libro che mescola elementi di saggistica a elementi del romanzo e della poesia, generi in cui l’autore ben sa destreggiarsi come dimostrano recenti pubblicazioni come London Voodoo oppure la raccolta poetica Figure amate. In questo nuovo libro si respira molta letteratura. Si pensi, per esempio, alle tante poesie che appaiono nel corso del testo – Philip Larkin, Opis Mandel’štam, T.S. Eliot – che l’autore motiva nel seguente modo:
[…] per inseguire le vite racchiuse in questo libro non mi sono fatto scrupolo alcuno di utilizzare tutto ciò che avevo a disposizione, tutto ciò che mi sembrasse utile. Non potendo contare su un’esperienza sufficiente da alpinista, pur di decifrare quel particolare approccio al mondo e alla vita ho scomodato la musica, l’arte, la letteratura, e ancor di più la poesia.
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L’uso dell’intertestualità a livello di stile e di linguaggio sopperisce alla mancanza di linguaggio tecnico relativo all’alpinismo e allo stesso tempo serve a universalizzare le storie sul Nanga Parbat in storie di fallimenti e di fragilità dell’essere umano. In questo senso è da intendersi dunque l’accostamento che Tosco fa fra alpinisti e poeti:
Pochi, davvero pochi sono coloro i quali riescono a sopportare la pressione causata dall’inseguimento di un sogno quasi irraggiungibile. Poche categorie umane rientrano in questa ristretta famiglia. Gli alpinisti e i poeti sicuramente.
Non essendo esperto di alpinismo, Tosco di conseguenza si cimenta in queste storie di alpinisti e delle loro esperienze con il Nanga Parbat attraverso un aspetto che, in quanto scrittore, li accomuna: l’ossessione per l’infinito e l’irraggiungibile. Questo legame si riflette anche a livello di struttura del testo. Il libro si apre e si chiude con quello che Tosco definisce «un gesto generatore»: la morte di Alison Heargraves, alpinista e madre di Tom Ballard, anch’egli scalatore, e quella del padre dell’autore, che hanno instillato nei due la consapevolezza che per amare e coltivare un’ossessione bisogna farsi cambiare nel profondo e sacrificare ciò che abbiamo: una regola che non vale solo per l’alpinismo, ma anche per la creazione artistica e letteraria.
L’incerto procedere verso l’infinito del Nanga Parbat
Questa particolarità a livello strutturale rende il libro di Tosco un qualcosa dotato di un «incerto procedere» sebaldiano. Ogni protagonista di queste storie – autore compreso – infatti è costretto a procedere verso l’ignoto inseguendo le orme di chi è venuto prima, alimentati dalla stessa sete di infinito.
Il primo a porre le tracce per questa consapevolezza è Albert Mummery, il primo a pagare con la propria vita la sua hybris verso il Nanga Parbat, pensando di poterlo conquistare per via della sua esperienza come alpinista, quando invece, alimentato dal suo «miraggio privato», non ha fatto altro che confermare l’inesauribilità della montagna. Stessa sorte di Mummery toccò a Willy Merkl, simbolo della Germania nazista che voleva dominare il Nanga Parbat in quanto, secondo le deliranti idee di Madame Blavatsky, era la montagna degli ariani, di cui la Germania hitleriana si considerava massima espressione.
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La «montagna nuda», però, non ammette l’arroganza degli uomini, non si lascia colonizzare: il suo posto è per chi è disposto a sacrificare tutto, a lasciarsi alle spalle qualunque cosa, anche se stessi. Ne sa qualcosa Hermann Buhl, il primo ad arrivare in cima al Nanga Parbat nel 1953, che in cima al Nanga Parbat ci è arrivato da solo disattendendo gli ordini del capocordata Karl Maria Herrligkoffer, ma soprattutto Reinhold Messner, che ha perso un fratello per inseguire il proprio sogno ad alta quota, e infine Mackiewicz, Ballard e Nardi, i quali nella Mangiauomini credevano di trovare la vita da sempre desiderata, il proprio posto nel mondo, la libertà, ma in realtà vi hanno trovato la morte.
«Nanga Parbat»: ragione di vita, ragione di morte
Nonostante quelle raccontate da Tosco siano in gran parte storie di fallimenti, paradossalmente gli alpinisti raccontati dall’autore hanno trovato nell’alpinismo un mondo in cui soffrire e allo stesso tempo esistere. Quella narrata in Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda (acquista) è l’ossessione tipica non solo degli alpinisti, ma più in generale di ogni essere umano: quella per il conseguimento di un sogno irraggiungibile, ovvero il raggiungimento dell’infinito e di una felicità da ricercarsi in un’utopia dell’altrove, che si tramuta però in rinuncia, sacrificio e perdita di sé e di tutto ciò che si è conquistato.
A questo ho pensato a lungo lavorando al mio libro. Al fatto che per tutti i protagonisti delle storie che ho provato a raccontare, e omaggiare, la montagna fosse al tempo stesso un oggetto d’amore e il luogo in cui avevano perso la vita i loro migliori amici, i loro compagni più fidati, i loro familiari. Ho capito che il coraggio più grande dimostrato da queste persone non era quello necessario alle loro imprese, ma il coraggio che ha permesso loro di continuare ad amare la montagna nonostante i lutti e le perdite che su di lei hanno avuto luogo, e nonostante la consapevolezza dei molti altri che capiteranno in futuro.
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