«L’ospedale dei dannati»: il bestiario umano di Stanisław Lem

Un manicomio raccontato come un «museo di anime»

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L'ospedale dei dannati

Non solo un autore di fantascienza

Il nome di Stanisław Lem è indissolubilmente legato al genere fantascientifico. Ancora oggi, a distanza di più di cinquant’anni, alcuni suoi lavori continuano a essere riediti. Fra tutti, certamente, figura l’opera che l’ha reso celeberrimo in tutto il mondo: Solaris. Un testo estremamente affascinante che ha raccolto critiche entusiaste in tutto il mondo. Il viaggio galattico e introspettivo di Kris Kelvin sul pianeta pensante di Solaris ha ispirato intere generazioni. Lem, poi, ha accresciuto notevolmente la sua fama anche grazie all’omonima trasposizione cinematografica del 1972 a cura di Andrej Tarkovskij.

Tuttavia, sarebbe riduttivo arginare la produzione dell’autore al solo genere fantascientifico. Constatato il fatto che la sua scrittura multiforme ben si adatta alle varie esigenze narrative, nei suoi lavori Lem cerca di analizzare uno spettro di situazioni che gli permettono di non essere catalogato come un qualunque scrittore di genere. L’intera produzione è imbevuta di filosofia, sempre tuttavia finalizzata all’evolversi della trama e alla spiegazione di determinati fenomeni.

«L’ospedale dei dannati»: il capolavoro degli inizi

Un’eccezione nella sua produzione è rappresentata da un lavoro piuttosto inusuale. Si tratta de L’ospedale dei dannati, uno dei suoi primi romanzi. Edito in Italia per la prima e unica volta dalla Bollati Boringhieri nel 2006, il libro è un passaggio imprescindibile per gli appassionati di Lem e una lettura ricca di spunti per gli altri lettori. Nonostante siano onnipresenti le speculazioni filosofiche – anche di ampio respiro –, potremmo definirlo un romanzo decisamente più realista rispetto agli altri suoi testi. In particolare, il romanzo è il primo capitolo della trilogia che prende il nome di Il tempo non perduto.

Scritto nel 1948, ma pubblicato solo nel 1955 – con l’incedere della destalinizzazione –, L’ospedale dei dannati rappresenta senz’altro l’incursione meglio riuscita di Lem in un genere letterario apparentemente avulso alla sua scrittura. A dire di molti critici e dello stesso autore, gli altri due libri – Tra i morti e Il ritorno – non figurano come eccelse prove narrative e vengono relegate come opere secondarie. Invece, questo romanzo del tutto inusuale ha una genesi piuttosto travagliata: infatti, prendendo in prestito le parole di Catalluccio, «una tale descrizione degli orrori della guerra, associata agli orrori di pratiche crudeli verso i malati di mente, non piacque alla censura polacca e creò molti imbarazzi nei critici, che consigliarono a Lem di assecondare la sua passione per la fantascienza».

Dal funerale dello zio all’ospedale psichiatrico di Bierzyniec

L’ospedale dei dannati è ambientato nell’ospedale psichiatrico della cittadina di Bierzyniec. Siamo nel 1940 e, dunque, i nazisti hanno già invaso la Polonia. L’antisemitismo serpeggia nelle strade non solo delle grandi metropoli, ma anche nei piccoli centri abitati. Nel frattempo, i partigiani cercano di organizzare la propria resistenza in gran segreto.

Il protagonista, il giovane medico Stefan Trzyniecki, si trova catapultato nel paese della sua famiglia: Nieczawy. La fine di febbraio conferisce al luogo una desolazione senz’eguali. Stefan è quasi costretto a recarsi al funerale di uno dei tanti zii non tanto per un impulso affettivo, ma più per costrizione e rispetto. Infatti, il padre del medico è gravemente malato e non può recarsi al funerale del fratello; dunque, Stefan è come se andasse in rappresentanza del suo piccolo nucleo familiare. Lui, totalmente estraneo alla realtà delle sue origini, si trova così coinvolto nella cerimonia riconoscendo – e in alcuni casi vedendo per la prima volta – parenti più o meno vicini e amici di famiglia. La precarietà della situazione politica del Paese dà l’impressione che la morte dello zio sia solo un mero fatto accidentale. Dopo i funerali iniziano discorsi sulla guerra e sul dominio dei tedeschi. In un passaggio successivo del libro si afferma:

Che mi dite della Germania? La conseguenza della loro ideologia sarebbe la distruzione biologica della nostra nazione, dopo averne sfruttato fino in fondo le forze vive.

Tuttavia, Stefan apprende con una certa angoscia e curiosità gli ultimi giorni di vita dello zio, morto per tumore. L’imbarazzo di Stefan è notevolmente accresciuto dal fatto che il padre – a prescindere dalla malattia – è totalmente estraneo alla situazione familiare, considerato il fatto che per tutta la sua vita è stato assorbito in maniera morbosa dal suo lavoro. Il padre, infatti, è un inventore fallimentare che, a dire di molti, si è fatto mantenere per anni dalla rendita della moglie. Uomo confuso e a volte collerico, per Stefan il padre rappresenterà sempre uno strano modello che – più o meno indirettamente – aleggia sulle sue decisioni.

La svolta de «L’ospedale dei dannati»

Mentre il romanzo inizia con una classica situazione che potremmo ricondurre al classico dramma familiare, già nei primi capitoli prende una svolta inaspettata. L’ospite inatteso prospettato nel secondo capitolo non è altro che il vecchio compagno universitario, Stanisław Krzeczotek. L’amico è passato per porgere le sue condoglianze alla famiglia con la speranza di rivedere Stefan dopo anni. Nonostante fra i due non ci sia mai stato un rapporto di profonda amicizia, si mettono a parlare delle rispettive esperienze e Stanisław comunica di lavorare nel vicino ospedale psichiatrico. Considerato che Stefan al momento non ha un’occupazione, gli propone di venire a lavorare con lui: stanno cercando un medico. Nonostante il protagonista non sia specializzato in psichiatria, l’amico liquida la faccenda piuttosto sbrigativamente:

Per la terapia ci vuole poco. Sotto ai quaranta, non si sbaglia: è sempre dementia praecox. Bagni freddi, bromuro e scopolamina. Oltre i quaranta, dementia senilis: scopolamina, bromuro e docce fredde. E gli elettroschock. La psichiatria sta tutta qui.

Stefan è dubbioso. Prende seriamente in considerazione la proposta, ma decide infine di rifiutare. Solo un treno affollato sul far della sera impedisce ai due di recarsi alle rispettive mete. Ma l’ospedale psichiatrico dista solo dodici chilometri da Nieczawy e il prossimo treno passerà solo il giorno successivo. Il maltempo e la prospettiva di un posto pulito e riparato convincono Stefan dell’accoglienza dell’amico. I due si recano così a piedi verso la struttura. L’ingresso è tanto spettrale quanto ammonitorio:

Davanti al cancello scuro si innalzava un arco di pietra, nascosto letteralmente dai cespugli, con una scritta indistinta. Quando si furono avvicinati, Stefan vi lesse sopra le parole: Cristo trasfigurato.

La trasfigurazione secondo Stanisław Lem

Un segnale che per il lettore italiano acquisisce un significato preponderante solo conoscendo il titolo originale dell’opera: L’ospedale della trasfigurazione. Sempre Catalluccio, uno dei massimi esperti di Lem, precisa: «la questione della trasfigurazione e della metamorfosi è la chiave di tutto il libro: quel luogo, l’ospedale psichiatrico circondato dalla guerra di annientamento, diventa la metafora della fragilità umana, dell’insopportabile e inarrestabile mutazione di tutto». Insieme a Pornografia (acquista) di Witold Gombrowicz, L’ospedale dei dannati è considerato una delle più caratteristiche e feroci critiche di matrice polacca verso il sistema guerrafondaio e la pazzia. L’ingresso di Stefan nell’ospedale coincide con l’incidere sempre più totalizzante del regime nazista.

A me sembra che in questo posto ci troviamo un po’ fuori dal mondo … Tutto questo ospedale è un fenomeno abbastanza atipico. Un’atipicità tipicizzata. […] I tedeschi, la guerra, la disfatta si percepiscono in modo molto indiretto, quasi come un’eco lontana …

La malattia mentale e la guerra ne «L’ospedale dei dannati»

Gli orrori della guerra, dunque, trovano un loro corrispettivo nella malattia mentale, non sempre e solo limitata a quella dei pazienti. Gli stessi medici reagiscono nei modi disparati con l’avanzare sempre più preoccupante dei tedeschi che vede il proprio culmine nella retata in ospedale. Il bestiario umano che ci offre Lem in queste pagine è preoccupante. Come in tutte le sue opere, si può trarre sempre un insegnamento anche per i giorni nostri. L’umana comprensione viene spesso rimpiazzata dall’egoismo e dal quieto vivere. La malattia – o presunta tale – permette all’uomo di mostrare a lui e agli altri le proprie debolezze.

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Già nella seconda parte dell’Ottocento il grande pubblico era venuto a conoscenza dello stato di inedia a cui erano sottoposte alcune strutture psichiatriche – basti pensare al reportage Dieci giorni in manicomio di Nellie Bly. Oppure si osservi solo il quadro-denuncia La sala delle agitate nell’ospizio di San Bonifacio di Telemaco Signorini. La situazione è reale, estremamente concreta e impreparata. Gli studi e il trattamento dei degenti sono antiquati. Unendosi a questo filone, Lem conferisce una sua personale interpretazione e lo fa in maniera del tutto inedita e originale, tanto da far rimpiangere al lettore che i restanti libri della trilogia non siano paragonabili come tenore a questo.

Il manicomio come «museo di anime»

Il manicomio è sempre stato il condensato spirituale di un’epoca. Nella società normale le deviazioni, le storture psichiche e le stranezze sono talmente diluite che finiamo per non vederle. Solo qui dentro, concentrate una accanto all’altra, mostrano chiaramente il vero colto del loro tempo. È come un museo di anime …

I personaggi che Lem immortala ne L’ospedale dei dannati rimangono impressi. A volte tratteggiati con veloci aneddoti o immortalati in situazioni paradossali – come il “rimpianto della follia” di Łuka Wincenty o l’elettrotecnico Woch – oppure con ampie divagazioni e suntuose analisi introspettive – fra tutti il paziente Sekułowski, poeta e filosofo. Il libro si snoda così fra una serie di episodi che vanno a costituire una collezione di dettagli che presagiscono gradualmente la monumentalità morale-filosofica dell’opera. Un’opera vivida che palpita in ogni suo capitolo e che merita solo di essere riscoperta e rivalutata.

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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