Pavel e il coraggio di saper sognare

Call letteraria: Biglietto del museo

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Al giorno d’oggi è facilissimo trovare artisti per le strade di città e paesini: paesaggisti che vogliono mostrare tutte le loro abilità nel catturare un’immagine sulla tela andando a competere con la tecnologia della fotografia; ritrattisti che cercano di misurarsi con i segni del tempo e le varie sfaccettature che un volto possa nascondere dietro le apparenze.

In uno dei miei tanti viaggi intorno al mondo, mi sono imbattuta in un paesino contadino tra le montagne orientali, cullato e protetto dalla vallata che lo cinge e baciato interamente dal sole nelle ore più calde della giornata. Proprio lì, tra quei vicoli stretti e quegli edifici segnati dal passare del tempo, mi è capitato di incorrere in delle opere dipinte: pelli animali essiccate e assi di legno.

Appoggiate per terra, ai tavoli delle botteghe o appese ai muri esterni delle abitazioni donavano colore e nuova luce a quel paesino ormai invecchiato. Diverse tonalità di giallo e arancione davano vita a quei tramonti catturati da un angolo paradisiaco e incontaminato, da qualche parte in cima alla vallata.

Anche in quel posto l’arte sembrava essere la benvenuta, in particolare per la presenza di un importante museo. Ma non è stato sempre così: l’arte non è stata accolta fin da subito, perché fra gli abitanti del posto il saper dipingere veniva considerato un’abilità inutile che favoriva l’otium.

Nessun contadino, infatti, avrebbe mai potuto immaginare di potersi permettere un’entrata in uno dei musei più prestigiosi del paese. In effetti era anche l’unico nel raggio di migliaia di chilometri e i biglietti erano troppo costosi per le famiglie di ceto più basso che a stento riuscivano a racimolare abbastanza per sfamare i propri figli. 

A essere sinceri, non avevano neanche interesse nel vedere quattro quadri appesi alle pareti senza neanche capirne il significato, anche perché la pittura era considerata una perdita di tempo, che non portava a nulla. Dopotutto il bestiame non pascolava per conto proprio e il raccolto non si mieteva da solo.

Quello che a loro interessava era far prosperare le loro proprietà irrigando i campi, allevando gli animali e insegnando il mestiere a ogni componente della famiglia, nessuno escluso.

Ma se i fanciulli erano destinati all’allevamento e le fanciulle al raccolto, vi era un giovanotto che preferiva trascorrere i suoi pomeriggi ad ammirare le increspature del ruscello, la rugiada appena posata sulle piante dell’orto e il chiarore del sole che regalava agli occhi una miriade di sfumature in tutto ciò che illuminava.

Il piccolo Pavel era un sognatore. Gli piaceva chiudere gli occhi mentre i raggi del sole scaldavano la sua candida pelle appena scottata per i lavori nelle ore più calde; amava sentire il canto degli uccellini e il fruscio della natura che lo circondava, e mantenendo gli occhi chiusi immaginava un mondo diverso, dove tutti potessero giovare di opere di grandi pittori per capirne lo stile, la storia rappresentata e arricchire così la propria esistenza.

Ma in cuor suo sapeva che non poteva esprimere a voce alta questo suo pensiero. Nessuno lo avrebbe mai capito, e avrebbe rischiato di incorrere in una severa punizione.

Così decise di mantenere questo suo sogno segreto, e ogni volta che ne aveva la possibilità, dopo aver dato da mangiare agli animali della fattoria, si rintanava dietro quell’enorme quercia che costeggiava il ruscello, iniziava a masticare una spiga e guardava a sinistra, giù, in fondo alla vallata, seguendo il torrente con gli occhi. Proprio lì in fondo, dove l’ombra era già calata, si scrutava il paesino. 

Il campanile dominava la scena, ed era la prima struttura facilmente distinguibile. Un occhio più attento come quello di Pavel riusciva, però, a guardare oltre. Vedeva le piccole stradine che si insinuavano tra le abitazioni, le varie botteghe, il fumo del pane appena sfornato che si faceva strada verso il cielo, il pescivendolo che agitava in aria il pescato per renderlo più appetibile e invogliare la gente a comprarlo.

Se il paesino mostrava la sua veneranda età con i suoi colori spenti e la precarietà di alcuni tetti rovinati dalle intemperie, a lato vi era una struttura nuova, che si discostava da tutte le altre: era il Museo. Già a distanza il nuovo edificio infondeva un sentore di pulito e di sapienza, invogliando i passanti a entrarci per visitarlo.

Un pomeriggio Pavel decise di scendere in paese seguendo il letto del torrente. L’aria che si respirava era completamente diversa. Trovandosi in una conca, il villaggio era infatti molto più riparato e le temperature un po’ più contenute. Non si stupì nel vedere che era proprio come se lo era immaginato: botteghe sparse per strada, bambini ben vestiti che giocavano a palla, contadini che barattavano i loro prodotti e greggi che aspettavano di essere portate al pascolo. Al centro della piazza vi era un grande pozzo in pietra con abbeveratoio annesso dove i bambini si rinfrescavano, le signore raccoglievano l’acqua per le varie faccende e il bestiame soddisfaceva la sua sete.

Solo il Museo era diverso da ogni aspettativa.

Trovandosi davanti al suo portone di ingresso si rese conto di quanto fosse imponente e come la sua presenza fosse più scenica del datato campanile. All’entrata vi era solo un misero tappeto e sull’architrave era appeso un cartello con qualche segno di carbone, che però Pavel non era in grado di leggere. Ma non gli interessava.

Finalmente era lì, di fronte al tanto sognato Museo. Gli sembrava così irreale che non riuscì a trattenere l’emozione, e si commosse. Quando si trovò sul punto di entrare, un uomo oltre lo stipite della porta lo bloccò chiedendogli il biglietto. Prima ancora che Pavel potesse dire qualcosa, il custode aveva già notato il suo ceto di appartenenza dai vestiti logori e dalla terra sul viso. L’uomo si abbassò e gli spiegò che per entrare servivano tante monetine, che lui ovviamente non aveva.

Notando l’affievolirsi del sorriso sul viso del fanciullo e preso dalla commozione per non aver mai visto qualcuno del ceto contadino interessarsi al Museo e al suo contenuto, decise di proporgli un accordo.

Il custode aveva una zia molto anziana che faceva fatica anche a stare in piedi, vincolandolo a fare tutte le faccende per lei. Essendo impegnato al Museo, però, non riusciva a svolgere sempre tutte le mansioni e chiese al fanciullo se fosse disposto a farle al posto suo. 

Il piccolo Pavel non capiva bene come questo scambio avrebbe potuto aiutarlo, ma nel momento in cui il custode parlò di compenso capì subito l’opportunità che gli stava dando.

Fu così che ogni pomeriggio, dopo aver finito le sue mansioni in fattoria, si incamminava per il villaggio, seguendo sempre il corso del ruscello, e a fine giornata il custode gli consegnava una piccola monetina di bronzo.

Passarono i giorni; il sole era calato e sorto molte volte. Arrivato a quel punto, svolgeva le faccende in automatico ed era diventato amico di molti bottegai. 

Era ormai giunto l’autunno. Il fanciullo andò a ritirare la monetina di bronzo dal custode, ma non lo trovò più sullo stipite della porta. Lo stava aspettando dentro, in cima alle scale, ben vestito e con un pezzetto di carta in mano.

Pavel si fece avanti lentamente, guardandosi attorno. Non sapeva cosa stesse succedendo né perché il custode non lo stesse aspettando sulla porta.

Quando lo raggiunse, l’uomo si inchinò e con grande eleganza gli porse il tanto desiderato biglietto del Museo. Sul viso di Pavel iniziò a esplodere un sorriso raggiante; ancora non poteva credere di averlo guadagnato con grande sacrificio.

L’uomo si inginocchiò accanto a lui e lo abbracciò. Lo ringraziò per tutta l’umanità che aveva dimostrato e per il suo grande desiderio verso la cultura.

E così, dopo una lunga attesa, Pavel riuscì a immergersi all’interno di quelle tele, tra le sfumature di colori e tutto ciò che volevano raccontare. Cercava di capire come potessero nascere opere tanto belle semplicemente usando un pennello, e arrivò alla conclusione che per dipingere così bene bisognasse per forza essere dei veri sognatori.

Da quel giorno Pavel scese spesso al villaggio, continuò ad aiutare la zia del custode perché ormai si era affezionato a quella dolce e simpatica vecchietta, e il custode, per sdebitarsi, lo fece entrare nel Museo ogni volta che lo incontrava.

C’è chi ancora racconta di un vecchio di nome Pavel, che ogni pomeriggio, quasi all’imbrunire, sta seduto sotto quella grande quercia che si impone su tutta la vallata tra quei monti sperduti e lontani dal mondo, a dipingere su delle vecchie pelli e assi di legno tutto ciò che gli occhi e l’immaginazione vogliono raccontare. Nessuno sa perché continui a dipingere l’ennesimo tramonto, sempre dalla stessa postazione. Ma quel che è certo è che Pavel riesce a far sognare chiunque guardi un suo dipinto.

Racconto di Veronica Dal Castello / Fotografia di Annalisa Insinna

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Redazione MM

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