C’è una tendenza nella letteratura italiana contemporanea, specie fra autori nati fra gli anni Ottanta e Novanta, a confrontarsi molto con la figura del padre. Diremmo quasi che ci sia una specie di «telemachia letteraria». Come Telemaco, infatti, questi autori raccontano storie in cui i personaggi si ritrovano a fare i conti con una figura paterna assente, che spesso lascia frammenti di ricordi e macerie umane, da cui partono per diventare adulti e per rinascere a nuova vita.
In questa sorta di telemachia letteraria ci rientra sicuramente Piero Balzoni, autore romano che dopo il debutto di Come uccidere aragoste (Giulio Perrone Editore, 2015) è tornato in libreria per i tipi di Alter Ego Editore con Vita degli anfibi, proposto al Premio Strega 2023 da Paolo Di Paolo.
La trama di «Vita degli anfibi»
In un tempo e un luogo imprecisato in Italia, nel giorno del suo compleanno una bambina perde il padre. Che sia sparito per cambiare vita o che sia morto per una malattia improvvisa non ci è dato saperlo e mai lo sapremo. Ciò che i lettori scopriranno in Vita degli anfibi è che questo padre è un moderno Ulisse che mai farà ritorno a casa, che lascia il suo Telemaco e la sua Penelope da soli a confrontarsi con i sensi di colpa e la paura costante di perdere qualcuno.
La bambina diventerà ragazza e poi donna fra ricerche, indagini, incontri con persone che hanno conosciuto il padre come la farmacista Alice e il Forzuto e il ritorno a luoghi come il caseificio vicino al lago. La sua sarà una telemachia che più che farla ricongiungere con il padre sarà un modo per rinascere e crescere a partire proprio dall’assenza paterna.
«Vita degli anfibi»: gli stadi evolutivi dell’assenza
La prima cosa che salta all’occhio di questo romanzo è il titolo, Vita degli anfibi. La metafora dell’anfibio, infatti, è molto presente nel testo. Questo aspetto è stato, per esempio, evidenziato da Stefano Bonazzi nella sua recensione al romanzo per «Satisfiction»:
Subentra esplicita la metafora dell’anfibio da cui anche il titolo, a suddividere il testo nelle tre fasi del suo ciclo vitale che da larva muta in girino per poi raggiungere lo stadio adulto, finalmente in grado di abbandonare il rifugio che l’ha accolto ma restando comunque legato al grembo acquatico che l’ha generato.
Come giustamente sottolinea Bonazzi, la metafora dell’anfibio si rispecchia anche a livello di struttura del libro. Il romanzo, infatti, è suddiviso in tre parti, e all’inizio di ciascuna di esse troviamo un disegno: nella prima parte troviamo una larva, nella seconda un girino e nella terza una rana. Nella prima parte troviamo la protagonista bambina, nella seconda leggiamo la sua storia da ragazza e nella terza la vediamo adulta che lavora come infermiera.
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Come l’anfibio si evolve in tre stadi, così la protagonista si confronta con la figura del padre attraverso tre fasi: una prima di elaborazione e sensi di colpa verso l’assenza, la seconda di tentativo di compensare questa assenza e la terza di accettazione e di crescita vera e propria. Tutto questo viene fatto all’insegna della memoria, che per Balzoni sembra suscitare conflitti e paure che si risolvono soltanto attraverso il ricordo, che della memoria è una sua riorganizzazione fatta di verità di comodo costruite per sopravvivere.
D’altronde, come scrisse Benjamin Stein in La tela (Keller, 2013), la verità «non è in possesso di nessuno. Tutti l’abbiamo per le mani a frammenti. E poiché non sappiamo che cosa sia vero, dobbiamo decidere che cosa conta per noi». Scegliere cosa conta per noi – e per la protagonista – è ciò che ci fa superare l’assenza senza dimenticare quanto di bello probabilmente ci ha lasciato chi non c’è più.
Primo stadio: il senso di colpa
Già dall’incipit, Vita degli anfibi introduce le conseguenze della scomparsa del padre, ovvero il senso di colpa della protagonista: «Di tutte le figlie sono stata la peggiore», dichiara la bambina, «di tutte le figlie possibili, di tutti i fratelli e le sorelle che non ho mai avuto, di quelli conosciuti e degli altri, dei dimenticati». La bambina vive fin da subito in modo conflittuale l’assenza del padre, arrivando a dire che perderlo «è stato un giro di orologio a vuoto […] Il tempo vissuto sta negli spazi bianchi. Tempo che cresce come gramigna e si mangia tutto il resto».
La bambina nutre sensi di colpa non soltanto per il suo compleanno e per il fatto, ad esempio, che il padre sia andato via per la vergogna di non averle fatto un regalo, ma soprattutto per il fatto che comincia a non ricordare più nulla di lui, come ad esempio le ultime parole che le ha detto prima di andarsene.
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Il senso di colpa aumenta ancora di più perché la bambina non riesce a liberare la figura del padre dai ricordi della madre, che per difendersi sembra ricordare come l’uomo fosse propenso ad abbandonare la famiglia, un modo, questo, per emanciparsi da una figura che ha segnato per sempre la sua vita: «Io e lei eravamo il problema», afferma la protagonista, «io e lei che non stavamo mai attente e che a forza di non stare attente gli avevamo rovinato la vita. Io e lei piene di cose, la casa piena di cose».
Secondo stadio: compensazione dell’assenza
La reazione a questo senso di colpa e al meccanismo di autodifesa messo in piedi dalla madre è quello di cercare negli oggetti ogni elemento che possa far rivivere nella bambina – ormai ragazza – un’immagine del padre. Il caseificio, le bambole, i regali avvolti nella carta del giornale e storie fantasiose come quella del dio del lago sono elementi che fanno sì che la protagonista riesca a riappropriarsi dell’immagine di suo padre. Tuttavia, questa riappropriazione diventa, però, una reinvenzione della figura paterna:
Di chi era colpa se sua figlia, la loro unica figlia, quando le chiedevano com’era fatto suo padre s’inventava un’altra persona? Una persona che lei sperava di vedere tornare a casa la sera, una persona che raccontava storie e costruiva Lego e la portava al circo e passava il suo tempo a giocare e a insegnarle cose sul mondo.
La protagonista afferma più avanti che ciò che cercava di suo padre era qualcosa di simile ai fantasmi, ovvero un’essenza del padre negli oggetti e nei luoghi da lui vissuti e appartenuti, e «chi cerca fantasmi vive di speranza». Questi piccoli fantasmi sono come gli origami di cui proprio il padre le ha parlato, ovvero modi di riprodurre il mondo – in questo caso i fantasmi – per poterlo controllare.
Sotto questo aspetto, Vita degli anfibi sembra ricordare molto Addio fantasmi di Nadia Terranova (Einaudi Stile Libero, 2018). In quest’ultimo Ida, la protagonista, arriva a costruire una vita parallela di suo padre – anche lui, come quello del romanzo di Balzoni, scomparso in circostanze misteriose – in modo da esorcizzare e controllare il dolore attorno alla sua assenza: «Vivo o morto mio padre torna a casa», dice Ida, «ha di nuovo una voce, un corpo, un nome. Costruisco altre esistenze e nuove storie, cesello un mondo parallelo in cui si muovono voci, corpi e nomi ben scanditi, sillabati e concreti».
Terzo stadio: accettazione
In questa telemachia al femminile, la vicenda della bambina ricorda molto dei versi della poetessa Premio Nobel Louise Glück: «La ragazza che scompare dal lago/non ritornerà mai./Ritornerà una donna,/cercando la ragazza che era». La bambina ormai donna comprende quanto l’assenza del padre abbia lasciato lei e sua madre per sempre incomplete come un segno di un destino più grande di loro da accettare senza se e senza ma:
Ogni giorno c’erano persone che scomparivano e persone che ritornavano, tutto senza una logica oppure tutto pianificato da una mano ignota che disegnava un grande progetto segreto. Allora iniziavo a pensare, a sperare, che questo progetto esistesse davvero e che la separazione di mio padre fosse soltanto l’ingranaggio necessario di un disegno inimmaginabile, perciò giustificato, che partiva da molto più lontano e proseguiva senza sosta anche dopo di noi.
La protagonista accetta, dunque, la presenza di «uno spazio vuoto. Uno spazio da riempire». Niente e nessuno potrà restituirle il padre. Niente e nessuno a parte lei. Il dono di luce a cui il padre faceva sempre riferimento nelle storie del lago che le raccontava da bambina è proprio questa assenza che le ha lasciato.
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Il padre è scomparso non per una malattia o perché voleva cambiare vita, ma è scomparso simbolicamente per insegnare alla propria figlia che nel buio dell’assenza è lei stessa il dono di luce, colei che deve fare ordine nei suoi ricordi e negli oggetti e nei luoghi condivisi con lui per poter andare avanti e ristabilire la sua presenza nell’assenza. L’immagine che conserverà di lui magari non sarà autentica, forse come le foto ingiallite dall’usura del tempo sarà un’immagine parziale, ma essendo un fantasma sarà comunque una presenza in absentia, un modo per esorcizzare la sua scomparsa e superare la paura dell’abbandono.
«Vita degli anfibi»: una telemachia femminile
Vita degli anfibi (acquista) di Piero Balzoni ci consegna una telemachia dove la ricerca e l’attesa del padre diventano esse stesse il padre, in quanto l’attesa di un ritorno che non avverà mai diventano l’occasione di un percorso intimo che ci aiuta a comprendere come si possa superare l’assenza attraverso la memoria e il ricordo, che esorcizzano il vuoto permettendo di creare una nuova possibilità di vita dall’assenza.
Le somiglianze non sono davvero somiglianze. Sono pezzi sempre uguali che si ripresentano in ordine sparso e spetta a noi trovarli per amarli ancora. Così anche amare diventa più facile perché amiamo qualcosa che forse ci apparteneva già e non lo sapevamo, ce ne eravamo dimenticati. I pezzi di mio padre disgregati e persi per sempre ma non scomparsi. Niente di lui sarebbe mai scomparso, solo disperso. E mano a mano che i pezzi si disperdono, si espandono nell’universo delle cose, anche il dolore si disperde, si espande e non c’è dono di luce, non c’è dio de lago o pozione magica che possa aiutarti a ritrovarli. Non voleva dire niente se ancora non avevano trovato il suo corpo. Papà aveva iniziato a espandersi.
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