Radici di sangue e storia

«Tu devi prendere il potere» di Pietro Cardelli

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«Tu devi prendere il potere» di Pietro Cardelli

«Quali tempi sono questi, quando/discorrere d’alberi è quasi un delitto,/perché su troppe stragi/comporta silenzio!/E l’uomo che ora traversa tranquillo la via/mai piú potranno raggiungerlo/dunque gli amici/che sono nell’angoscia?». Così scriveva Bertolt Brecht nella sua lirica A coloro che verranno. Una chiara posizione d’intenti sul finire della Seconda Guerra Mondiale in cui l’autore rigettava ogni escapismo degli autori della Innere Migration e invitava a prendere una posizione precisa nei confronti della realtà.

Ancora oggi scrittori e intellettuali si ritrovano nella situazione di dover prendere posizione nei confronti dell’attualità: non solo quella lontana a noi, ma anche quella vicina a noi, come il precariato giovanile oppure la violenza di genere. Questo è il caso di Pietro Cardelli, redattore della rivista poetica «formavera» e direttore del collettivo Liberamente approdato in libreria con la raccolta Tu devi prendere il potere per i tipi di Interlinea nella collana «Lyra giovani» diretta da Franco Buffoni.

Le poesie di «Tu devi prendere il potere»

Non è un caso che si è iniziato questo articolo parlando di Brecht, in quanto la raccolta di Pietro Cardelli prende il titolo da un verso della Lode dell’imparare del poeta e drammaturgo di Augusta: Tu devi prendere il potere. Come Brecht, Cardelli mostra un io lirico che inizialmente sembra ignorare ciò che accade attorno a sé: sempre meglio aspettare la fine della settimana lavorativa e ricominciare tutto da capo come un automa invece che ricordarsi, ad esempio, delle notizie di guerra nel resto del mondo.

Ben presto, però, questo io lirico tiene a mente la lezione brechtiana della già citata lode: «controlla il conto,/sei tu che lo devi pagare». L’io lirico è responsabile tanto quanto gli altri delle ingiustizie che accadono nella sua realtà. Non può continuare a rinunciare, perché ogni cosa lo riguarda. Deve necessariamente prendere una posizione, e per farlo ha uno strumento a posizione: la lingua, «un corpo a più piani» capace di dar forma a «un respiro comune».

Un Bildungsroman in versi

Per comprendere al meglio Tu devi prendere il potere, si legga quanto scrive Stefano Dal Bianco nella sua nota introduttiva alla raccolta poetica:

Tu devi prendere il potere: che si tratti di un romanzo di formazione è chiaro fin dal titolo, come è chiaro che la vita vera, la vita adulta, dovrà cominciare lì dove il libro si chiude, quando il protagonista sarà in possesso degli strumenti esperienziali che gli permetteranno, auspicabilmente – la certezza non esiste – di rispondere positivamente al diktat, che altro non significa se non la necessità di individuare la propria posizione, una posizione attiva in un mondo che ce la mette tutta nel volerci passivi, acquiescenti e soprattutto isolati.

Se prendiamo in considerazione i titoli delle varie sezioni – le cui poesie sono state pubblicate in momenti diversi fra il 2013 e il 2022 e poi raccolte in questo volume –, ci troviamo di fronte a delle vere e proprie tappe di una formazione di coscienza politica e sociale. Se le sezioni Allestire una difesa e I padri e figli ci pone di fronte a un contesto di sottomissione e passività verso la generazione dei padri e verso l’alienazione della quotidianità – lavorativa e non –, dalla sezione Del mondo a A te che leggi l’io compie un processo di consapevolezza di ciò che lo circonda e della sua posizione nel mondo, una posizione di distanza, ma che attraverso la parola può fare la differenza.

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Più avanti nella nota, Dal Bianco si sofferma anche sulla ricerca formale delle poesie di Cardelli. Essa, sostiene il poeta e critico letterario, costituisce per Cardelli un modo per inseguire l’anelito alla compiutezza, che si trova nell’intrecciare la propria storia privata con quella ufficiale. Questo intreccio fra storia e Storia è la formazione a cui Dal Bianco allude, una formazione graduale che parte da una posizione di disincanto e disinteresse nei confronti del mondo, da un rapporto coi padri fatto di indifferenza e sordità a una crescente consapevolezza dei mali della società e una ricerca delle sue origini, che porta l’io lirico a prendere una posizione di potere attraverso la parola poetica.

Il mondo circostante dell’io e le relazioni interpersonali

L’io lirico di Cardelli vive in un contesto di totale indifferenza dove «a noi tutto è precluso», dove è facile accampare scuse e ogni silenzio è per sempre. I silenzi, però, invece che comunicare un grido di aiuto e una richiesta di coraggio non fanno altro che amplificare le distanze fra l’io e gli altri e riecheggiarne la decomposizione:

Nello stato che ci contraddistingue siamo simili
così tanto da non riconoscerci se non in noi stessi
se non nelle stesse decadenze. La pelle ci logora,
il corpo che man mano si concede alla decomposizione.

L’io «capisce, ma non si riflette»: sa che qualcosa non va, ma non si addentra nella profondità delle cose e non si impegna a cercare una soluzione. Persino il rapporto con i padri risulta complesso e pieno di riflessioni mancate. L’io vorrebbe il confronto, «ma forse va bene così, dovrei lasciar stare»: è inutile addentrarsi in riflessioni che finiscono nel silenzio, un silenzio indotto da una società che vuole soltanto degli automi pronti solo a produrre delle prestazioni.

Io ho pensato che era meglio star zitto,
fare finta di nulla, la nostra scelta prediletta.
Ignorarti è così facile, farti credere ciò che voglio,
fingere di non capire.

Un tratto vero che ci eguaglia

Tuttavia, l’io lirico trova un punto in comune con il padre: la creazione, la volontà di plasmare le cose e capirne il significato. Il senso delle cose sta «negli scheletri ossei, nelle strutture armate, nei cementi che si formano nelle betoniere, in queste costruzioni resistenti al tempo, oltre le grammatiche». Le cose hanno senso di esistere perché qualcuno si è sacrificato per farlo, come recita la poesia Mulinuccio che parla della morte di tre operai in un cantiere della A1 nel 2008:

Guardaci qua sotto, guarda noi
che non ti vediamo tanto sei alto,
consegnaci qualche parola, abbi pietà
se ridiamo, non vogliamo recarti dolore,
un gesto, un segno, è abbastanza, poi
ce ne andiamo, lo prometto, perdonaci.

Questi versi sono emblematici dell’impegno richiesto all’io. L’io lirico deve ascoltare le vicende che riguardano la sua attualità. Se lui esiste, è perché chi è venuto prima di lui, come nel caso di Tomba di sopra ’44, ha perso la vita per permettergli un avvenire migliore, ed è importante riconoscere, quindi, l’intreccio fra la propria storia e quella degli altri:

C’è la storia personale e c’è la storia collettiva, intrecciate e irrisolte. Ritornano. Poi si mette un punto – ma prima si fanno i conti. La pornografia è il sollievo, come i giochi per bambini: anche lei ha una forma. La storia personale è l’Appennino. La storia collettiva è lo spazio occupato e in disuso, i quotidiani e i telegiornali, il colore e la posizione delle bandiere.

La tua storia è la storia di tutti

L’io comprende, quindi, che serve il passaggio da una posizione distante nel presente a un nuovo sguardo: quello della collettività. La sua storia è quella di tutti, il dolore di tutti è il suo dolore, poiché «la violenza era nelle cose,/non potevamo liberarci,/era un destino,/ma una violenza soffocata e silenziosa». Non basta più la bella parola di autocompiacimento dei suoi articoli di rivista: adesso bisogna riconoscere la presenza di «molti lamenti» e «molti nemici».

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Alla fine del suo percorso, l’io lirico comprende quanto «la radice è invisibile, è sangue e storia,/è me, te e il salto, l’eco che fugge e ritorna». La parola poetica, una volta macchiatasi dei ricordi delle morti del passato e delle atrocità commesse nel mondo di fuori, deve mostrare la radice invisibile del male, che collega l’io e gli altri. Chi sta in silenzio è complice del male e del sangue, ma l’io attraverso la parola poetica può plasmare le cose e impegnarsi per plasmare la coscienza degli altri affinché comprendano la loro complicità nella Storia e possano intervenire per migliorare le cose.

Prendere il potere (poetico)

Tu devi prendere il potere (acquista) è la riprova di come ancora oggi sia necessario che l’arte prenda una netta posizione nei confronti della realtà circostante e dell’attualità. Tornando a Brecht, parlare di alberi e usare una bella parola fine a se stessa non serve a migliorare le cose: la parola poetica deve sporcarsi col sangue delle vittime di ogni tragedia e prendere consapevolezza che la storia dell’io è la storia di tutti, e che può plasmare le cose per rendere il nostro un posto migliore in cui vivere.

Abbiamo visto la resurrezione
l’abbiamo chiamata ipotesi: una questione
di atteggiamenti, sapori, linee di confine,
spingersi avanti per non retrocedere,
avere paura. Gli errori sono edera,
senza seme non fioriscono. Guarda
la responsabilità scintillante
come spande la sua luce, la sofferenza
animale: ce la portiamo sulle spalle
diversi pesi e stesse consistenze.

Pietro Cardelli, Etica e resurrezione, da Tu devi prendere il potere

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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