È possibile parlare delle proprie vite attraverso lo sport? Se consideriamo capolavori della letteratura mondiale come La solitudine del maratoneta di Alan Sillitoe, Fútbol di Osvaldo Soriano, ma anche Città amara di Leonard Gardner, la risposta sarebbe senz’altro affermativa. Sport come la maratona, il calcio e la boxe ben riescono a raccontare le difficoltà degli uomini nel confrontarsi con i propri dilemmi esistenziali, con l’idea di riscatto e di rivalsa.
Un altro sport, però, che ben riesce a raccontare la difficoltà del diventare adulti e del confronto con le proprie responsabilità è l’equitazione. A farne una materia letteraria ci ha pensato Pietro Santetti, fino al 2015 fantino professionista che ora si è prestato alla scrittura debuttando lo scorso agosto per Mondadori col suo romanzo Uomini di cavalli.
La trama di «Uomini di cavalli»
Uomini di cavalli racconta la storia di Lucio Neri. Orfano di madre, il protagonista vive con il padre Fosco, che come lui è un uomo di cavalli. Lucio nutre il sogno di diventare il miglior cavaliere di salto a ostacoli. Nel realizzare questo suo desiderio, il giovane stringe un forte legame di amicizia con Ferro, che con lui condivide la stessa ambizione:
Su me e Ferro ci sono alcune cose da capire, ma questa rimane pur sempre l’unica verità da conoscere. Eravamo arrabbiati. Ed eravamo certi di volere qualcosa. E se ci avessero chiesto cos’è che volevamo, allora noi avremo risposto: diventare il miglior cavaliere di salto a ostacoli al mondo […] Era la nostra vita. Ed era bello poter soffrire in funzione di un traguardo. Fusi in un unico obiettivo. Presuntuosi, determinati e insieme.
Come in ogni barrage (nel gergo dell’equitazione è un percorso a ostacoli che si deve realizzare senza penalità) che si rispetti, le vite di Lucio e Ferro sono piene di difficoltà e ostacoli. I loro sogni e la loro fame di successo, infatti, si dovrà presto scontrare con una realtà di delusioni, fallimenti e compromessi.
«Uomini di cavalli»: autobiografismo e il confronto con «Il mio vecchio» di Ernest Hemingway
Sebbene sia azzardato parlare di autofiction, fra il personaggio di Lucio e Pietro Santetti vi sono dei punti in comune: essere entrambi cavalieri a ostacoli, con esperienze di lavoro in Svizzera, da un lato, e aver cavalcato un cavallo di nome Caligi dall’altro. Dalla sua vita, inoltre, Santetti ha estrapolato l’idea dell’equitazione come riflesso dell’età adulta e delle sue difficoltà, come si può leggere nel seguente estratto tratto da una sua intervista rilasciata per «Vanity Fair»:
Quello dell’equitazione è un ambiente molto eccitante, molto più di quello dei comuni diciannovenni. Ci sono ragazzini che si trovano a vivere come adulti, un po’ perché iniziano a viaggiare per tornei, un po’ perché a un certo punto, con i tornei, cominciano a girare parecchi soldi. Questa è una storia di formazione con delle dinamiche diverse dalle solite, più spietate.
Il lettore più attento si sarà accorto dell’influenza che ha esercitato un grande autore americano su Pietro Santetti: Ernest Hemingway, verso cui lo scrittore fiorentino nutre un certo debito già dall’esergo tratto dal racconto breve Il mio vecchio. In quest’ultimo l’autore di Oak Park ha saputo raccontare il mondo delle corse dei cavalli come proiezione della realtà esterna. La storia di Butler, infatti, con i suoi presunti imbrogli con le scommesse e la sua morte durante la corsa a ostacoli, ben si riflette in quella di Lucio, che – e questo è l’unico spoiler che si farà – non perderà la vita come il personaggio hemingwayano, ma sicuramente si confronterà con un mondo di compromessi e fallimenti dove la sete di successo presto lo fa scontrare con la dura realtà.
Andarsene in preda a una cavalcante ossessione
Lucio, dunque, si dimostra fin da subito un ragazzo animato non tanto da una passione, ma da un’ossessione. Il ritmo incalzante del romanzo rende bene l’idea del carattere di Lucio. È una persona determinata a perseguire i suoi obiettivi, disposto a tutto pur di lasciarsi alle spalle il passato, e pertanto ossessionato dai suoi scopi:
Perché il talento non esiste. Non nel modo che intendevano loro, almeno. Non si tratta mai di passione infatti, né di innate capacità: è l’ossessione; è sempre e solo l’ossessione a condurre l’uomo ovunque vada, a dargli una ragione per continuare a camminare, è sempre e solo l’ossessione a convincerlo a non fermarsi quando i piedi sanguinano con una lunga scia rossa alle calcagna. Dovrebbe essere chiaro che il talento non è una questione di muscoli, ma di fantasmi.
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Il rapporto burrascoso con il padre da un lato, ormai cavaliere sulla via del tramonto, e l’asfissiante vita di provincia e la scuola dall’altro danno a Lucio l’idea di essere sempre un pesce fuor d’acqua, qualcuno a cui «continuava a mancare sempre qualcosa» e che «continuava a rimanere solo». Il protagonista trova, così, nei cavalli la sua ragione di vita, il suo modo d’essere:
Ed era bello soffrire, andare avanti tra fiducia e ostinazione, in direzione di un sogno, anelando il succo dei mesi che stava nelle gare, nelle ragazze, nei viaggi. Il mondo era pieno di ragioni per le quali valeva la pena spaccarsi la vita. Ed era bello. Era bello e non faceva male.
Schiavo del desiderio di rivalsa e di direzioni che non sono la tua
Lucio comincia ad accumulare i suoi primi successi come cavaliere. Come Butler di Il mio vecchio, si dimostra sempre più schiavo del desiderio di avere successo. Questa ossessione di rivalsa ben presto lo mette di fronte alla realtà: l’ambiente dei cavalli e dei cavalieri è una realtà di denaro, di sopraffazione e potere, dove a vincere è il più forte e il più compromesso.
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Il protagonista si ritroverà presto a dover mettere da parte i suoi sogni con Caligi prima e con la cavalla Cadis dopo, i quali non rispondono alle esigenze richieste da un mondo spietato come quello della competizione dei cavalli, e la stessa cosa vale anche per Ferro, il cui sogno di avere una scuderia in proprio si infrange nel momento in cui non può far nulla contro il suo vecchio capo, Zaccone, e le sue accuse di violenza sessuale. I due ragazzi si accorgono così di aver vissuto fin dall’inizio con idee da ragazzino in una realtà di imbrogli e prevaricazione:
Temendo e anelando l’arrivo delle quattro del mattino, con la testa che andava, andava, e mi portava in luoghi sconosciuti, mi chiedeva per la prima volta cosa fosse il mondo dell’equitazione, cosa ci fosse al di fuori di esso, e io cominciavo a sospettare di aver portato avanti un’esistenza a senso unico e di non poter continuare ad attraversare la vita con il paraocchi […].
Nonostante questa caduta finale come degli Icaro senza ali ma in sella al cavallo, Lucio e Ferro comprendono che il loro non è semplicemente uno sport, ma è la vita: cadere, fallire e fare compromessi è necessario per andare avanti, soprattutto nel momento in cui si ha «una ragione in cui credere».
«Uomini di cavalli»: una di quelle vecchie storie di cavalli
Alla sua prima prova narrativa, Pietro Santetti è riuscito nell’intento di regalarci una storia di formazione sì classica, ma narrata attraverso uno sport poco raccontato in letteratura: l’equitazione. Uomini di cavalli (acquista) non solo ci regala uno sguardo sul mondo dell’equitazione mai fornitoci da nessuno prima d’ora, ma sa raccontare attraverso di esso la spietatezza e la difficoltà del mondo degli adulti, prendendo molto spunto dall’impulso hemingwayano alla gloria, che se da un lato dà ottimismo e fiducia verso il futuro, dall’altro ti porta a confrontarti con l’imminente destino di fallimento.
C’è silenzio. Nessun rumore tranne il tuo respiro e quello del tuo cavallo: gli zoccoli che affondano nel terreno. Ed è un vero lusso. Un bacio sulla fronte. Ma quella mattina il cielo era mosso, il sole era morto nel grembo della notte, e di fronte a quel rettangolo di sabbia intatta riuscii solamente a chiedermi: esiste veramente qualcosa di giusto, di sbagliato? Un’azione crudele inflitta a un innocente per il suo bene resta ancora un’azione crudele? A cosa deve essere disposto un uomo?
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Penso che non lo comprerò, visto che sono un’appassionato di equitazione. Dalla recensione, appare una realtà romanzata, però! L’unica cosa che viene fuori è la metafora dello sport come scuola( da gladiatori) di vita. Essendo appassionato di equitazione, posso dire che che si può praticare l’equitazione come scuola di vita anche senza un cavallo creando la propria personalità. L’equitazione, per come la vedo io, prescinde da competitività, che non vuol dire assenza di volontà di vincere, né si risolve in un esercizio di stile.
Secondo me, qui l’equitazione centra poco e bene avete fatto ad accostarlo ad Hemingway, sembra più un elogio alla fatica del vivere, alla necessità di venire a patti con la realtà.