Punto di rottura

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«Punto di rottura», il racconto inedito di Daniele Israelvichi

L’unico a cui ne ho parlato è Piero, anche se non so mai cosa capisce di quello che gli dico, a causa di un’otite che l’ha reso completamente sordo da un orecchio. Dovrebbe portare l’apparecchio acustico, ma non gli va di essere preso in giro dai suoi compagni di scuola; dice che è già difficile essere orfano di madre e povero e che essere orfano di madre, povero, e per di più andare in giro con un apparecchio acustico sarebbe un po’ troppo per il suo equilibrio emotivo. Così, per paura che gli altri scoprano il suo segreto, si isola preventivamente trascorrendo le sue giornate a costruire villaggi virtuali, coltivando campi e mungendo mucche randomizzate per ore, insieme ad altre persone che vivono in queste realtà parallele. 

«Sempre meglio che avere un amico immaginario» ho risposto a suo padre quando l’altro giorno mi ha fermato sulle scale, con uno sguardo disperato, per chiedermi che cosa avrebbe dovuto fare con un figlio che non parla con nessuno e trascorre le sue giornate chiuso in casa davanti al computer. 

Per sdrammatizzare, visto che non si spostava, ho provato a sorridere dicendo: «Dài, Mario, siamo stati tutti ragazzi, abbiamo avuto anche noi i nostri problemi a quell’età. Ma crescendo, si sa, passano». Poi sono scoppiato a piangere. 

«Su, su, Adrian, con Claudia in quelle condizioni devi essere forte il doppio. Proprio come sono stato costretto a fare io per amore di Piero. Vedi, Adrian, quando una persona cara muore, non rimane solo la tristezza, c’è anche la fine della complicità, del lavoro emotivo che i due realizzavano insieme. Il sopravvissuto, o nel tuo caso la persona più forte, quel lavoro deve continuare comunque a portarlo avanti, per quanto riluttante, da solo.» 

Non ho fatto in tempo a pensare che mi sembrava il discorso di uno psicologo, più che di un portiere, che mi sono ritrovato la faccia tra le sue manone pelose. Dopo averla avvicinata alla sua, mi ha fissato negli occhi e mi ha detto: «Resilienza, Adrian! Sei solo adesso, ma so che puoi farcela». 

L’ho ringraziato per le parole di conforto, trascorrendo il resto della giornata a lottare contro l’idea di suicidarmi.

Tra poche ore mi recherò a Rimini per la convention della Salux Romagna, un’azienda farmaceutica italiana. Il proprietario, per festeggiare i suoi novant’anni, ha deciso di trasformarla in una fondazione, in modo che dopo la sua morte tutti gli utili vengano reinvestiti nella ricerca di nuove cure. Qualche settimana fa mi aveva telefonato per raccontarmi che quando era piccolo, a chi gli domandava che lavoro volesse fare da grande, aveva sempre risposto: “Il lanciatore di coltelli”. Per lui sarebbe stata una gioia conoscermi e fare un viaggio indietro nel tempo, così da poter riabbracciare quel bambino. Ancora mi commuovo a pensarci: un uomo di successo come lui, felice di conoscere un fallito come me. Non sarà facile ucciderlo.

Prima di uscire di casa prendo la valigetta e vado in salotto. Mi nascondo dietro la porta e rimango lì a fissare Claudia. È seduta sul divano a guardare la televisione in compagnia di Winnie The Pooh, il pupazzo che le avevo portato in ospedale quando era nata Bianca. Mi avvicino alle sue spalle e l’abbraccio. Lei sussulta e, quando si volta, gli occhi quasi le scappano dalla faccia. «Mi hai fatto prendere un accidente! Vai piuttosto che sei in ritardo. E guida piano.»

Sarà la tensione, o forse è solo l’effetto collaterale del nuovo ansiolitico che mi hanno prescritto, ma faccio fatica a tenere gli occhi aperti. Dopo un po’ sono costretto a mettere la freccia e a fermarmi in una piazzola di sosta per prendere un po’ d’aria. Mentre le auto mi passano accanto, facendomi ogni volta vacillare, mi appoggio alla portiera e chiudo gli occhi. Rivedo Bianca, nel momento in cui corre in mezzo alla strada, e ripenso per l’ennesima volta ai pochi passi che mi separano da lei; gli stessi che vorrei avere la forza di fare adesso. Poi il suono di un clacson mi fa trasalire, salgo in macchina e riparto.

Una volta arrivato alla convention, mentre cerco parcheggio, ripenso a quanti soldi mi hanno offerto per uccidere il dottor Remotti. Soldi che già mi aspettano su un conto in Svizzera. L’unica cosa che devo fare è sbagliare di proposito la traiettoria del lancio. Pochi centimetri, una fatalità. L’avvocato mi ha garantito che andrò in galera al massimo qualche anno, per omicidio colposo, e una volta fuori dovrò solo pensare a come spendere i soldi dei suoi clienti. 

«Persone che non hanno alcun astio nei confronti del dott. Remotti, solo vedute differenti circa il futuro della società» mi aveva detto, quando ci eravamo incontrati nel suo studio. 

Pensa se lo odiavano, avevo pensato, senza avere il coraggio di dirlo, mentre l’avvocato scriveva una cifra su un foglio di carta, facendolo poi scivolare sul tavolo per farmela leggere. Dopodiché aveva sollevato il foglio strappandolo una volta, poi un’altra, e infine una terza, mentre continuava a fissarmi in silenzio. Proprio come nei film.

Entro nella sala congressi e la prima persona che vedo è un vecchietto sul palco: tiene il microfono in una mano, mentre va in giro su una carrozzina elettrica manovrando il joystick con l’altra. Prego che non sia lui, non ho mai ammazzato nessuno in vita mia e non vorrei cominciare da un vecchio paraplegico. Quando scende per presentarsi, la situazione si complica ulteriormente: è pure gentile. Mi chiede di abbassarmi e, dopo avermi stretto la mano, mi abbraccia. Mi torna in mente Piero che si era raccomandato di mantenere una certa distanza, di non farmi coinvolgere emotivamente, perché il segreto per riuscire a uccidere una persona (si è documentato in non so quale forum di psicopatici per essermi d’aiuto) è di sforzarsi di non vederla come un essere umano, ma di trasfigurarla in un oggetto, qualcosa di inerte che si possa rompere senza tanti problemi. Quindi, mentre mi dirigo verso il palco per raggiungere Guido (sì, perché nel frattempo mi ha pure chiesto di dargli del tu), penso a come trasformare in un oggetto un simpatico novantenne, costretto su una sedia a rotelle, che ha deciso di donare la sua immensa fortuna alla collettività. Senza contare il fatto che erano mesi che qualcuno non mi abbracciava. Più che a un oggetto, mi viene da pensare a un Dio misericordioso. Mi sudano le mani. Per calmarmi prendo al buffet la prima cosa alcolica che trovo e, una volta riempito il bicchiere fino a metà, butto giù. Dopo aver fissato per qualche secondo il fondo, ne verso ancora. Poi un altro po’, e mi fermo solo quando mi accorgo che ho le dita bagnate.

Salgo sul palco tra gli applausi. Una luce accecante ricopre ogni cosa, o forse sono solo ubriaco. Quando recupero la vista, la prima persona che riesco a mettere a fuoco è una ragazza in prima fila che si muove a scatti. Mi volto e vedo la carrozzina di Guido davanti a un pannello di legno. Un cenno con la testa: è pronto. Faccio un rapido inchino al pubblico e apro la valigetta. Alla vista dei coltelli tutti smettono di applaudire, a parte la ragazza, ma le sue mani non fanno rumore. Mentre mi preparo al lancio, mi sforzo di pensare alle cose che potrò fare con quei soldi, come aiutare Claudia a dimagrire, sperando che ritrovi un po’ di serenità, e finalmente l’operazione al naso per smettere di russare, così forse mi permetterà di dormire ancora con lei. Per festeggiare comprerò anche un letto nuovo, a due piazze e mezzo, di quelli con i materassi anatomici che adesso vanno tanto di moda. Poi penso a Piero. Anche se non posso riportare in vita sua madre, vorrei comunque esaudire un suo desiderio; magari accompagnarlo in America, dove di sicuro avranno già inventato un apparecchio acustico ultrapiatto, da mettere sottopelle…

Il primo coltello si conficca nel legno. Guido porta la mano al viso e rimane qualche secondo a guardarsi le dita. Poi riabbassa il braccio, in attesa del secondo lancio.

Non dovevo bere.

Mentre prendo un altro coltello dalla valigetta mi ritrovo a pensare che grazie alla cura dimagrante Claudia comincia sì, a stare meglio, ma sceglie di non venire a dormire con me nel letto nuovo a due piazze e mezzo, adesso che non russo nemmeno più, e penso che potrebbe lasciarmi, dicendo che le ricordo solo momenti tristi. E Piero? Durante l’operazione potrebbero sorgere delle complicazioni e toccherebbe poi a me attraversare l’Atlantico per riportare il suo corpo al padre che, mentre aspetta con gli occhi fissi su una pista sgombra, si domanda se esiste da qualche parte un posto dove vanno a vivere i genitori che perdono il loro unico figlio, in attesa che prima o poi passi un bimbo a prenderli con sé…

Mentre il secondo coltello arriva un palmo sopra la testa di Guido, sento qualcosa risalire dalla bocca dello stomaco, mi piego in avanti, appoggiando le mani sulle ginocchia, e faccio due respiri profondi. Guardo Guido, poi il pubblico, poi di nuovo Guido, mentre tutto è avvolto da una fitta pioggerellina luminosa, come se mi trovassi dentro a una palla di vetro trasparente. Quelle che quando le scuoti sembra che nevichi. E ci siamo proprio tutti adesso, non solo io e Guido e il pubblico, ma anche Piero, Mario e Claudia. E poi là in fondo, dietro i leoni e gli acrobati, eccola, con in mano Winnie the Pooh: “Ciao Bianca, amore mio, hai visto la neve? Proprio come il giorno in cui sei nata!”. E mentre il pavimento continua a ondeggiare, e tentiamo tutti di rimanere in equilibrio, allungo il braccio nel momento esatto in cui la palla di vetro cade a terra e irrimediabilmente si rompe.

Racconto di Daniele Israelachvili / Immagine di Marina Lucco Borlera

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Redazione MM

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