C’è un male latente che intesse la nostra contemporaneità, e Alfredo Palomba se ne fa portavoce nel suo ultimo romanzo, Quando le belve arriveranno (Wojtek Edizioni, 2022). Il romanzo (acquista) è stato anche proposto da Riccardo Cavallero per la LXXVI edizione del Premio Strega.
La storia che ci racconta Palomba in queste pagine è quella di un giovane uomo che si trova a fuggire dal sud Italia e dall’apprensione di una madre alcolista. La sua è una vita lineare, senza scossoni. In un’innominata città del centro Italia, il protagonista prende servizio come insegnante di sostegno e ci racconta in prima persona il suo scontrarsi con una realtà che si rende sempre più allucinata, iperbole degradante di un mondo corrotto e corruttibile.
«Quando le belve arriveranno»: il male strisciante
Quello descritto da Palomba è un male strisciante e senza origini (non è assimilabile alla sfortuna, a un nemico, nemmeno al fatalismo, tantomeno a un qualsiasi Dio): è un male onnipresente e radicato.
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Ciò che stupisce poi, in una prosa che a tratti si fa densa e onirica, è che il protagonista sembra sempre più non saper distinguere cosa è veramente reale; i fatti raccontati diventano dei prolungamenti delle sue fobie (le fatidiche macchie nere che compaiono nei volti e nei corpi di conoscenti e passanti, il rumore di cani che abbaiano, l’esasperazione sessuale), ma anche un metodo propedeutico di intendere la realtà comunemente intesa valutandone dapprima i connotati perturbanti.
È questa sensazione di essere trattati come spazzaturai, che raccolgono gli scarti di ogni classe e provano a lavorarli, a trasformarli in qualcosa di accettabile, quando non devono limitarsi ad accudirli, a far loro compagnia, a ripulirli se si sporcano o sbavano; è l’obbligo contrattuale di convivere con tutta questa sofferenza ad abbrutirli, riempiendoli d’astio e invidia.
Il perturbante che diventa protagonista
I fatti perturbanti sono i veri protagonisti del libro di Palomba, che costringono anche il lettore a un angoscioso stato d’animo, che non cessa nemmeno mentre ci si avvia al finale. Al contrario, ci lascia intendere con un climax le grandi contraddizioni di cui è pregna la società. E lo fa mettendo a nudo le idiosincrasie del protagonista, che continuamente avverte un senso di repulsione e scoramento verso un mondo che a stento capisce, eppure che continua a esistere – e al quale lui stesso cerca di negarsi vivendo emarginato e nell’ombra, creando dei rituali perpetuati con l’unico scopo di diventare dei palliativi al dolore inflesso che gli causa il contatto con l’alterità.
Il mondo tracciato da Palomba
L’autore ci porta in una città attonita e senza vita: il protagonista fa lunghe passeggiate, ma quello che vede sono i soliti scenari (la rosticceria cinese, la scuola muta e grigia, il passo stanco del fiume Montone). Il suo mondo si contrae poi nella minuscola stanza in affitto in cui vive, che sembra letteralmente rimpicciolirsi sempre di più; mentre lui passa ore a guardare i video più grotteschi su YouTube. Sembra quasi che il protagonista voglia provare a comprendere l’incomprensibile, anche se la logica è un meccanismo che non viene mai preso in considerazione nelle pagine di questo romanzo. Quando infatti le azioni non danno conto del male provocato (come nel caso del bullismo), l’unica cosa che rimane è il silenzio e un senso di disadattamento perenne.
Camminare per questa città è ormai, per me, disperdermi, ogni giorno, disperdermi e non sapere se tornerò mai, se sarò inghiottito, se anch’io dovrò pagare.
Canis canem non est
La sopraffazione del debole, dell’inusitato, è un tema ricorrente: emblematico è il suicidio dello studente Amhed, costantemente bullizzato dai suoi coetanei; ma nemmeno gli adulti vengono risparmiati.
Annusavo la paura dell’emarginazione e della solitudine che dovevano affrontare gonfiando il petto, chiamando puttana una ragazza, scimmiottando gli adulti per esorcizzarla.
Lo spaesamento e la nausea sono effetti che spesso si provano tra le pagine di Palomba; ma, come l’autore ci insegna bene, sono anche passaggi incredibilmente necessari. È infatti attraverso l’esercizio a un’esasperata ripugnanza che il lettore riesce a porsi i giusti interrogativi: viviamo davvero in un mondo così? E cosa fare se non è neanche più possibile distinguere il bene dal male, perché quest’ultimo investe ogni cosa, con la sua forza deflagrante?
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La risposta ci viene forse data dall’episodio in cui il protagonista trova il libro Il nano di Lagerkvist. Il nano non è altro che l’emblema dell’emancipazione, considerato in malafede cattivo soltanto per la sua diversità fisica. Ma non è forse il giudizio altrui che ci addita a costringerci a diventare esattamente come vogliono loro, gli avvoltoi accusatori?
[…] se ne vanno in giro spavaldi, a testa alta, ridicoli. Ecco il mio talento, far emergere in chi mi sta vicino il nano dentro di sé. Io sono per gli altri, senza che se ne accorgano, la loro stessa solitudine.
L’autore
Alfredo Palomba (1985) è dottore di ricerca in Letterature comparate e docente nella scuola secondaria. Il suo primo romanzo, Teorie della comprensione profonda delle cose (Wojtek, 2019), è stato segnalato al Premio Italo Calvino 2017, proposto per il Premio Strega 2020 e scelto per rappresentare il romanzo d’esordio italiano all’Europäisches Festival des Debütromans 2020 di Kiel. Collabora col quotidiano «Il Foglio».
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