«Questo è un libro nato disordinato» leggiamo nell’incipit di Questo immenso non sapere della poetessa Chandra Candiani, uscito per Einaudi nella collana Vele nel 2021.
E fin dall’inizio abbiamo proprio l’idea di una complessità che si ricama attraverso frammenti, sguardi, sogni, visioni che esplodono in poco più di 150 pagine raccolte e meditate dalla delicata prosa dell’autrice milanese.
Un’opera immancabile nella libreria di qualsiasi lettore di narrativa e poesia contemporanea, un libro per esercitare «la pratica della meraviglia».
«Questo immenso non sapere»: l’entropia del disordine volontario
Senza indice, capitoli scomposti, niente trama o cronologia: la storia che ci racconta Chandra è quella del suo contatto, essenziale e unico, con la spiritualità che governa la natura e le cose che ci circondano. Una scelta consapevole, quella dell’autrice, che ci dice di aver lasciato la città per andare ad abitare a stretto contatto con la natura e gli animali.
Lo spirito animale è una costante nelle pagine di Questo immenso non sapere (acquista): gli animali e gli alberi non solo sono una compagnia indispensabile, ma si riscoprono interlocutori dotati di un’empatia e vicinanza che sembra aver abbandonato il genere umano.
E così ho deciso: non tornerò più in città. Resto con la natura, non solo dalla sua parte ma proprio insieme a lei. […] Ora non solo parlo con gli alberi, ma gli alberi mi rispondono. Vado nel bosco a imparare a camminare sola, senza pensieri, a guarire le ferite, ma certe volte porto dentro di me anche altri, per farli guarire insieme a me.
Silenzio e ascolto
La pratica della meditazione (già trattata nel suo Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi 2018) è qui raccontata dall’autrice come un processo intrinseco e necessario per abituarci alla complessità e all’indigenza del mondo contemporaneo.
La meditazione – attraverso il silenzio e l’ascolto – ci avvicina alla parte più aderente alla nostra anima. Questa pratica costringe a renderci consapevoli della nostra piccolezza nei confronti dell’universo, del nostro non sapere; ci avvicina alla gratitudine e all’esercizio costante – e difficile – della meraviglia.
Bisogna salvare le ferite. Non lasciarle sole, sperdute nell’idea fissa della medicazione e della guarigione. Bisogna interrogare le ferite e aspettare le risposte. La risposta alla ferita siamo noi. I nostri gesti, le nostre possibilità accolte o respinte, i tremori e gli assalti rispondono tutti alle ferite. Perdere una ferita significa perdere una segnaletica importante per un viaggio dentro le orme dell’esistenza, un viaggio che ci accomuna e ci distingue, ci fa cantati, cantati dalla vita cruda.
Crocevia degli insegnamenti più disparati, a partire dal buddhismo, questo piccolo compendio di vita vissuta ci insegna scavalcando l’idea di preconcetto: ogni cosa è in divenire, muta creando un’entropia senza sosta. La nostra consapevolezza è tale quando riscopriamo i nostri limiti e, in quanto tali, impariamo ad accettarli. Infatti «la cultura occidentale divide i mondi tra finito e infinito, attribuendo al finito un carattere opaco e muto e all’infinito la trasparenza e il senso». E invece Chandra ama guardare le sfumature, le variazioni insite nelle piccole cose, rendendosi flessibile, integerrima e accogliente.
La cura del nostro cuore
Ampio spazio del libro di Chandra è dedicato alla cura del cuore: una medicina che abbiamo dimenticato da tempo oppure, semplicemente, non sappiamo recuperare. L’invito è quello di tenere il cuore vivo, partendo da quello che si è, imparando a conoscersi a fondo. Non si tratta solo della pratica costante alla nonviolenza, consapevoli che le nostre azioni possono ferire, ma anche riconoscere la fisiologia stessa del nostro corpo che sempre di più richiede di essere ascoltato, come sommario di muscoli, sangue e carne.
Ecco che qui, di nuovo, le pratiche del buddismo come le Brahma-vihāra (gentilezza amorevole, compassione, gioia per la felicità dell’altro, equanimità) accorrono in nostro aiuto e ci insegnano che dobbiamo salvare le ferite, ricostituendo una vicinanza con l’altro e la sua alterità che è invisibilmente necessaria, riscoprendo l’onnipresenza di un amore atavico e condiviso.
La cura del cuore è l’affidamento alla legge dell’impermanenza e della causa-effetto, ovvero sia del karma. Affidandoci si calma la smania della riparazione e della rottura definitiva, affidandoci non sappiamo e aspettiamo. Quieti.
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Andare altrove per rimanere
Potrebbe sembrare che il vivere sensibile ma consapevole non possa coesistere con il mondo attuale, con l’ordine semantico cui siamo abituati. Eppure in Chandra le parole prendono la trasparenza della compostezza, ci insegnano l’arte del rimanere, dell’adagiarsi sul qui e ora. Episodi violenti accadono anche nel bosco, ci racconta: ferite e traumi come disboscamenti, cacciatori, acque torrenziali. Ma, nonostante questo, il bosco sta, immobile, immaginifico nel suo silenzio… ed è proprio questa la grande lezione da fare nostra.
Ma il bosco sta, colpito, ammutolito per le ferite, i traumi, le razzie, ma sta. Dove altro potrebbe andare? Ma sta con vivezza, sta con presenza, non si distrae mai, non ha testa in cui nascondersi […]. Gli alberi prendono le forme del vento ma anche della fame di luce, della sete d’aria e di spazio.
Stonare dal mondo: abitare la complessità
I capitoli finali – tra i più belli della narrativa contemporanea che mi è capitato di leggere sin qui – ci parlano della necessità a volte del sentirsi inadeguati: alcune ferite non vanno per forza rimarginate, le volontà degli altri non sempre comprese, l’inadeguatezza una sensazione che non va per forza arginata.
Imparare a perdere dunque è la lezione più difficile. Eppure, infinitamente necessaria come le altre.
Forse la perdita più grande nella vita di una persona è la perdita della magia. La fedeltà all’infanzia è il rifugio e la lotta per non perdere l’incantesimo.
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