Quando si ascolta Paolo Cognetti rifiutare la categoria di “letteratura di montagna” per i suoi libri, non è immediatamente chiaro il perché della sua scelta. I suoi scritti negli ultimi dieci anni, oltre al libro che gli è valso lo Strega e che è diventato un film di grande successo, hanno tutti come protagonisti persone che abitano la montagna, amandola e temendola, spesso cercando in lei lezioni di vita che non sempre arrivano. Chi però ha letto gli esordi di Cognetti, le raccolte di racconti e i mosaic novel pubblicati per Minimum Fax, sa che c’è stato un Cognetti che scriveva di città, di Milano, di vite urbane e di conflitti sociali che non comprendevano la natura, neppure sullo sfondo.
La montagna è arrivata dopo, una riscoperta biografica e letteraria allo stesso tempo: Il ragazzo selvatico, uscito nel 2013 per Terre di mezzo e recentemente ripubblicato in edizione illustrata, è la testimonianza diaristico-narrativa di quest’incontro.
Scappare in baita
Nell’inverno dei trent’anni l’autore affronta un periodo di crisi, tanto nella vita quanto nella scrittura: è a quel punto che si ricorda delle montagne della Valle d’Aosta, dove ha passato tante estati da ragazzo ma che non visita ormai da anni:
Cercai una casa che fosse lontana dai centri abitati e il più in alto possibile. Non esistono grandi spazi selvaggi sulle Alpi, ma non serve l’Alaska per vivere l’esperienza che desideravo. In primavera trovai il posto giusto nella valle accanto a quella in cui ero cresciuto: una baita in legno e pietra a 1.900 metri d’altezza […] Sarebbe stato il mio mondo per un periodo che non avevo stabilito, perché non sapevo che cosa mi riservava.
Così inizia il primo dei molti mesi che Cognetti passerà in montagna, nella baita che ha preso in affitto da uno dei montanari del luogo, Remigio. La montagna ha un suo respiro, detta i tempi e impone necessità alle quali bisogna far fronte e che sembrano ritardare il momento della scrittura: ma se per l’autore è vero che non scrivere «è come non dormire o non mangiare», il ritrovamento della parola coincide con la scoperta delle difficoltà e anche potenzialità del proprio corpo in mezzo ai ritmi della natura.
Vedere l’invisibile
Il Quaderno di montagna – questo il sottotitolo dell’opera, quasi a voler privare di struttura narrativa il racconto dell’esperienza in montagna – è diviso in quattro stagioni/sezioni: L’Inverno, stagione del sonno, è già in via di conclusione quando l’autore si stabilisce nella baita, ma la Primavera, stagione della solitudine e dell’osservazione riserva ancora qualche nevicata. Nei mesi freddi la montagna si riprende quei sentieri attraversati d’estate da tanti turisti: escono «i selvatici», gli animali del bosco e del pendio che sono invisibili a chi non ha occhi per vederli ma che poco a poco familiarizzano con l’uomo andato a vivere in mezzo a loro.
Loro erano sempre stati lì, a scrutarmi, annusarmi, controllare i miei movimenti; io invece avevo occhi incapaci di vedere, e dalla finestra guardavo il bosco senza notare nulla. mi chiesi se avrei imparato ad avvicinarli, con il tempo, o se loro piano piano si sarebbero fidati di me.
L’autore li osserva, li rispetta, li studia e studia anche la vegetazione: solo pochi tipi di albero, il larice, il pino cembro e l’abete rosso, affollano il paesaggio e si difendono dalla minaccia del clima e del disboscamento per mano umana. La sensibilizzazione ai temi del cambiamento climatico e del rispetto del bosco, che Cognetti affronta in Giù nella valle e La felicità del lupo, in questo libro arriva al lettore per vie traverse: nel percorso di conoscenza della montagna l’autore arriva a toccare questi problemi con mano, a riconoscere le difficoltà dell’ecosistema nelle cataste di legna raccolte e lasciate a marcire, e li trasmette per come li percepisce, con più stupore che indignazione.
Imparare a vivere con sé stessi
La sfida umana che si presenta a Cognetti durante il periodo in montagna ha però soprattutto a che fare con la solitudine. «Avevo imparato a spaccare la legna, ad accendere un fuoco sotto il temporale […]; ma non avevo imparato a stare da solo, che è l’unico vero scopo di ogni eremitaggio», scrive verso la fine di Estate, stagione dell’amicizia e dell’avventura:
Più che a una capanna nel bosco, la solitudine assomigliava a una casa degli specchi: dovunque guardassi trovavo la mia immagine riflessa, distorta, grottesca, moltiplicata infinite volte.
Ma la compagnia che ci si fa in montagna, la si può chiamare amicizia? Sono amici i montanari schivi, che condividono con lui un fiasco di vino ma non si fanno trovare per un saluto al momento della partenza? Sono amici i ragazzi con cui condivide un rifugio in quota per qualche mese, una cucina, un pentolone di polenta, una candela che brucia quando cala il buio? La montagna non offre risposte a queste domande: spinge solo vicine, per un po’ di tempo, anime affini che cercano lì qualcosa di sé, e che prima o poi se ne vanno, avendola trovata o meno. Così nell’Autunno, stagione della scrittura è tempo di salutare la baita e la montagna, tornare in città, tornare alla scrittura.
Il ragazzo selvatico (acquista), come A pesca nelle pozze più profonde, è uno dei libri più intimistici di Cognetti, più vicino al diario o alla non-fiction che al romanzo. È meno conosciuto di altri, ma tra i migliori in quanto a finezza letteraria e onestà del racconto. Forse perché, qui come altrove, ci piace sempre leggere Cognetti mentre racconta di sé e di cosa vuol dire cercarsi in un posto che è nuovo e familiare allo stesso tempo.
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