Un poema per acquietare gli animi e farsi una risata. Questo era il proposito alla base della composizione di uno dei classici del genere eroicomico, il poema Il ratto del ricciolo (The Rape of the Lock) di Alexander Pope.
Scandalo a corte
Era il 1712. Uno scandalo ontoso aveva turbato le placide acque dell’alta società inglese: Lord Petre, settimo barone della casata Petre, aveva reciso una ciocca di capelli ad Arabella Fermor, giovane figlia di cattolici con cui si sarebbe dovuto fidanzare. Il gesto aveva portato le due famiglie, fino a quel momento in buoni rapporti, alla lite. I Fermor non vollero più saperne di un’unione con i Petre, indignati com’erano da quella sottrazione illecita del boccolo. Tra i testimoni di questo screzio vi era John Caryll, un caro amico di Pope. E proprio a lui raccontò l’accaduto, esortandolo a scrivere un’opera d’intercessione.
Nacque così la storia di Belinda, avvenente e leggiadra coquette amante delle cerimonie del tè e dei balli di corte. Ma è proprio nella residenza regale che un barone le sottrae con l’inganno una ciocca dei suoi capelli, scatenando una battaglia di proporzioni omeriche. Soltanto alla fine si scoprirà che le grida e le lacrime sono state a vuoto, poiché il ricciolo è asceso a costellare il firmamento. Tutt’attorno a questa impalcatura, Pope ha costruito una critica alla società dell’epoca, ai suoi passatempi oziosi e alla sua ostentazione. Tuttavia, non si tratta di un rimprovero severo, o adirato. I suoi versi hanno la punta arrotondata; non vogliono ferire, bensì scherzare.
L’obiettivo di Pope
La lettera dedicatoria ad Arabella Fermor, acclusa al poema, conferma che l’intento dell’autore fosse quello di ridere, e non deridere. In essa, Pope spiega che l’opera «era stata ideata solo per divertire qualche giovane dama dotata di abbastanza spirito e buonsenso da ridere non solo per le piccole impudenze del gentil sesso, ma anche per le proprie». Come e con quali strumenti l’autore ha cercato di ottenere un sorriso – e anche una riflessione – da parte dei suoi lettori sarà oggetto di analisi nei prossimi paragrafi.
I rimandi alla tradizione letteraria
Il ratto del ricciolo è un grande poema citazionale, e non c’è strofa che non contenga un rimando a un’opera o a un autore del passato. Ciò è stato possibile grazie al titanico repertorio di letture di Pope, che gli ha permesso di inframmezzare riferimenti biblici e omerici alla narrazione di eventi reali. L’accostamento tra episodi austeri e aulici alla fatuità leziosa del salotto aristocratico si rivela così essere la fonte prima di umorismo del Ratto.
Sin dall’inizio Pope non tenta affatto di nascondere questa natura faceta, definendo la sua opera «poema eroicomico in cinque canti». Comuni sono, ad esempio, i paragoni con le Sacre Scritture; al principio del canto II, Belinda è descritta in tutta la sua eterea bellezza: sul suo «liscio collo eburneo» pendono dei boccoli che, assieme al suo sguardo «chiaro come il sole», ricordano al lettore più tardo la levigata grazia delle sculture del Canova. È però un gioiello ad evocare un’immagine mariana: «porta una croce sopra il bianco petto/che anche gli ebrei potrebbero baciare/e qualsiasi infedele venerare». Se dunque il narratore accosta Belinda alla madre di Gesù (anche in virtù della sua plurimenzionata verginità), ne consegue che il furto del suo ricciolo è blasfemia, in quanto profanazione della sua purezza. Nel canto IV, la mano del barone prima è definita «mano rapace», ma più tardi è «mano sacrilega e violenta».
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Ciononostante, Pope si concede molti più tuffi in un’altra tradizione letteraria occidentale, ovvero quella dei poemi epici. La sottrazione del ricciolo equivale quindi al rapimento di Elena di Troia e gli déi si trasformano in minuscoli geni alati. Belinda, come ogni eroe greco, ha diversi epiteti: «la più splendida bellezza», «la bella», «la ninfa» e «la vergine». E come ogni eroe possiede anche delle qualità sovraumane, poiché si dice che arde di luce propria, e i suoi occhi accecano chi osa guardarla, tanto da renderla la rivale del sole.
Esempi di ironia popiana
Per comprendere meglio come funziona l’ironia popiana, preleviamo due campioni di testo. Il primo dal canto II, dove vediamo i silfi agghindare la loro protetta Belinda per una visita a corte. La descrizione che ci fornisce il narratore è molto simile a quella dello scudo di Aiace presente nel libro VII dell’Iliade, soprattutto nel chiaro riferimento del «settuplice recinto»:
Un gruppo di cinquanta silfi eletti,/di grandi qualità, saranno addetti/ alla gonna, un incarico importante:/abbiamo visto ceder così tante/volte questo settuplice recinto […] Una barriera ergete/ intorno al bordo argenteo e difendete/l’ampia circonferenza da ogni lato.
Aiace si avvicinava, con lo scudo come una torre,/di bronzo, con sette strati di pelle, che gli fece Tichio,/di gran lunga il miglior tagliatore di cuoio, che viveva ad Ile,/e gli fece uno scudo lucente, con sette strati di pelle/di tori robusti, e martellò per ottava una piastra di bronzo. [da Iliade, traduzione di Guido Paduano, Mondadori 2007]
Il secondo campione è forse un esempio ancora più eclatante della lepidezza di Pope. Nel canto V, il re degli déi Giove interviene per sentenziare sui dissidi umani, pesando su una bilancia l’intelligenza degli uomini con i capelli della protagonista:
Ora da Giove in aria vien sospesa/l’aurea bilancia: su di essa pesa/la chioma della dama con la mente degli uomini. I due piatti lungamente/oscillano dubbiosi, ma alla fine/le menti vanno su, e scende il crine.
Stavolta è un passaggio dell’Eneide a essersi prestato a modello. Scrisse Virgilio dello scontro tra Enea e Turno, nel libro XII:
Giove, equilibrato l’ago, sostiene i due piatti
della bilancia, e vi pone i diversi destini dei due,
chi lo scontro condanni, dove col peso inclini la morte.
[da Eneide, traduzione di Luca Canali, Mondadori 2017]
Emerge con chiarezza il modus operandi di Pope: narrare eventi frivoli e banali con la serietà e la magnificenza di un cantore epico. È la cosiddetta “tempesta in un bicchiere”, o “tempesta in una tazzina da tè”, se vogliamo mantenere alla lettera l’inglese “storm in a teacup” – la trivialità innalzata alla monumentalità. Siamo davanti alla personalissima satira di Pope verso la società a lui contemporanea, una società nella quale egli stesso sente di fare parte.
Effetto bathos
Oltre ai contenuti, Pope ha intessuto la comicità anche nel linguaggio. Trama e ordito di questa tela sono figure retoriche quali lo zeugma, l’iperbole, l’anafora e l’anticlimax – artifici con il solo scopo di conseguire l’effetto del bathos, un concetto introdotto dallo stesso Pope in un saggio del 1727 che indica un’improvvisa deviazione di tono, dal solenne al ridicolo.
Nel canto II, troviamo degli ottimi esempi di zeugma con il discorso di Ariele – il capo dei silfi al servizio di Belinda – sui possibili pericoli che possono presentarsi a corte:
Se infrangerà la legge di Diana/o un vaso incrinerà di porcellana,/se l’onore o il broccato macchierà,/se le preghiere o un ballo scorderà,/se perderà il suo cuore o un anellino/a una festa […].
Questi versi dimostrano a sufficienza l’efficacia di questa figura retorica che, nell’abbinare due elementi di importanza contrastante, ne evidenzia l’assurdità. Per Belinda, e per tutti i suoi pari, perdere l’onore o un gioiello sono sullo stesso piano. La gravitas si abbassa a levità, il pathos cede il posto al bathos.
Incontriamo un altro modello dell’incisività di questa tecnica retorica nel canto IV, durante la furente battaglia che vede la protagonista e i suoi silfi scagliarsi contro gli uomini per riappropriarsi del suo crinis sacer. «Belinda arde di un’ira spaventosa», e la sua amica Talestre attizza con un discorso la sua «nascente fiamma». È proprio la compagna a lanciarsi all’attacco di Sir Plume (si noti la leggerezza del nome) per costringerlo a restituire ciò che non è suo. L’uomo, sconcertato e incapace di mantenere la consueta compostezza, prorompe:
“Che diavolo è successo,/signore? Su, per Dio! Maledizione/a quel ricciolo! Andiamo, dannazione!/Siate cortese! Oh, cielo! Su, accidenti!/Questi non sono scherzi divertenti!/Datele indietro il ricciolo… vi prego…/alla malora!” disse, e con sussiego/diede un colpetto sulla tabacchiera.
In questo momento fatale di lacrime, grida e discorsi grandiosi, la parlata snob di Sir Plume snatura la serietà della scena, facendola sconfinare nel comico. Tuttavia, il fermento tra le due fazioni si rivela vano, poiché il ricciolo è salito in cielo a formare una costellazione. Ai lettori più attenti non è sfuggito certo il rimando alla Chioma di Berenice, titolo di un’elegia di Callimaco e nome, appunto, anche di una vera costellazione. La differenza con l’opera originale del poeta greco è che, mentre a Belinda è stata rubata una ciocca di capelli, Berenice l’ha sacrificata ad Afrodite per assicurarsi il ritorno del marito, partito per la guerra.
L’eredità del «Ratto»
Secondo Joseph Addison il poema era «una cosina deliziosa»(a delicious little thing), ma la sua era una delle poche opinioni benigne. Rappresentanti del Romanticismo quali William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge non potevano cogliere il fascino neoclassico del verso popiano, né i vittoriani e gli edoardiani sembravano gradirne l’ironia. Una delle opinioni più spietate era quella di Oscar Wilde, il quale chiosò: «Ci sono due modi di disprezzare la poesia. Il primo è non farsela piacere, e il secondo è leggere Pope». Tuttavia, il fascino del verso di Pope è innegabile – il ritmo incalzante, il tenore epigrammatico e il gusto motteggiatore sono tutt’oggi il suo marchio distintivo. Un marchio che proprio Il ratto del ricciolo (acquista) gli ha permesso di imprimere nel panorama letterario non soltanto britannico, ma anche mondiale.
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Pope è il mio Filosofo preferito. Perché la sua satira è intelligente e molto costruttiva. La Zuccheide è un Capolavoro Letterario. Saluti da Lecce
Troppo tempo lontana eppure adoro e ricordo
Un regalo prezioso
Avevo 16 anni