Che cosa significa precisamente essere uno scrittore afroamericano? Alla luce di eventi come l’assassinio di George Floyd e la nascita del movimento del Black Lives Matter, questa domanda ha cominciato ad assumere un’importanza sempre più grande nella letteratura statunitense. Più in particolare, ci si chiede spesso se un autore afroamericano debba necessariamente confrontarsi con il tema dei diritti civili oppure può occuparsi anche di altro.
Sicuramente, l’esperienza afroamericana è molto variegata, e ci sono autori come Colson Whitehead che con la letteratura amano molto raccontare cose diverse dalla realtà circostante e giocare con diversi generi letterari. Poi c’è Jason Mott, che nel 2021 vince il National Book Award con Che razza di libro! (NN Editore, 2022), che si interroga sul significato di essere uno scrittore afroamericano.
La trama di «Che razza di libro!»
Che razza di libro! racconta due storie che procedono in parallelo: quella di Nerofumo e di _____. Il primo è un ragazzino afroamericano che «sapeva di essere nero. Non scuro di pelle, ma nero. […] Nero come il nerofumo della stufa». Nerofumo vive ogni giorno cercando di sopravvivere alle vessazioni dei suoi compagni di classe, e soprattutto alla discriminazione subita da persone di colore come lui. Importante in questo senso è il dono dell’invisibilità che gli hanno dato i suoi genitori.
Il secondo protagonista, invece, è uno scrittore di successo in tour promozionale per un libro che «sta vendendo bene, a quanto pare. Si chiama Che razza di libro! È anche quello che dicono tutte le recensioni». Soffre di problemi legati all’alcol e ha una malattia che lo porta a immaginare le cose. La sua agente e il suo editore vogliono a tutti i costi che prenda posizione nei confronti delle violenze contro gli afroamericani.
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Le due storie si intrecciano nella figura del Ragazzino, un bambino che può vedere soltanto lo scrittore. Forse è una proiezione della coscienza dello scrittore, forse è Nerofumo che si immagina adulto e dialoga con il sé stesso bambino. Tutto resta incerto fino alla fine; fatto sta che questa figura enigmatica porta con sé molti interrogativi, in particolare sul ruolo di uno scrittore afroamericano nella sua società.
«Che razza di libro» o «Che libro di razza»?
Per ragionare su questo portentoso gioco metanarrativo quale è il romanzo di Jason Mott, sarebbe bene soffermarsi un momento sul titolo. A differenza del titolo originale Hell of a Book!, quello italiano scelto dalla traduttrice Valentina Daniele non solo è il titolo del libro del protagonista e anche la traduzione letteraria di un’esclamazione di stupore a cui allude anche l’originale, ma fa riferimento soprattutto a un problema centrale per il romanzo di Mott: è per forza necessario catalogare l’opera di uno scrittore in base al colore della sua pelle? È possibile una narrativa al di fuori della razza?
Non a caso, in quarta di copertina viene riportato un commento da parte di Charles Yu, scrittore di origini taiwanesi che in Chinatown Interiore (La Nave di Teseo, 2021) – vincitore l’anno prima di Mott del National Book Award – ha sollevato una questione analoga, ma in riferimento alla comunità cinoamericana nel mondo del cinema e della televisione. Si legga la seguente riflessione fatta da Yu, estendibile al romanzo di Mott:
Ma le vecchie parti stanno sempre lì sotto. Strati su strati che si accumulano. Era quello il problema. Nessuno a Chinatown era capace di separare il passato dal presente, vedendo sempre in lui (e in tutti gli altri, in loro stessi) tutte le sue incarnazioni passate, i personaggi che aveva interpretato nell’immaginario di chiunque ben dopo che i panni della recita erano stati dimessi.
Il problema sollevato da entrambi Yu e Mott è quello della categorizzazione di artisti e scrittori in base alle proprie origini, una questione da cui non si può prescindere perché in un certo senso sembra impedire tutti loro una via alternativa a quella che alla fine è solo un’imposizione di una readership prevalentemente bianca.
Nerofumo, tra invisibilità e rabbia
Un concetto fondamentale in Che razza di libro! è quello dell’invisibilità. Nell’ambito della letteratura afroamericana questo concetto è stato già usato da Ralph Waldo Ellison in Uomo invisibile. Se nel caso di Ellison, però, l’uomo invisibile è colui che non viene percepito dalla sua società e che cerca la propria identità nell’America delle leggi razziali, nel caso di Mott Nerofumo vuole diventare invisibile perché consapevole della sua identità, ma vuole essere percepito come una persona normale.
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Nerofumo si trova in bilico fra vivere come una persona normale senza provare odio per i bianchi, come gli dice di fare suo nonno Papa Henry, e vivere come suo zio Paul con la consapevolezza di essere un afroamericano soggetto all’ingiustizia e alla violenza perché, citando La prossima volta il fuoco di James Baldwin (Fandango, 2020), «questo paese innocente ti ha confinato in un ghetto, e in questo ghetto è stabilito che tu marcisca».
Il protagonista, però, sa che un altro mondo è possibile, ma è un mondo che richiede l’annullamento della propria realtà, un posto dove può vivere senza il peso del colore della propria pelle, rinunciando però alla propria sofferenza:
Nei giorni migliori, i più rari e i più belli, Nerofumo guardava il cielo e vedeva la più grande di tutte queste meraviglie. Vedeva un’altra Terra. No. Non la Terra. Qualcosa di diverso. Un intero pianeta, come questo, ma diverso. Era sospeso nel cielo, come la risposta a una domanda che il suo cuore gli poneva ogni giorno della sua vita. Quel posto, tutto intero, aveva il colore dell’onice. Oceani, montagne, foreste, tutti profondi e scuri come la pelle che odiava così tanto. Eppure lì, su quell’altro mondo, non odiava ciò che vedeva. Lì amava il colore della sua pelle.
La scrittura secondo un afroamericano
In questo brano troviamo il punto di incontro fra Nerofumo e lo scrittore autore di Che razza di libro!. Come Nerofumo, anche lo scrittore convive con un trauma legato alle sue origini e al colore della pelle. Egli convive con il proprio dolore soffocandolo nell’alcol e attraverso la sua malattia, che gli permette di immaginare cose che vede solo lui per reagire nei confronti della realtà in cui vive.
Come scrittore, però, sia i lettori che i giornalisti e i suoi editori vogliono che si impegni per rappresentare la sua comunità di appartenenza:
Una voce? Quale voce? La voce della mia gente? Sempre? Ogni secondo di ogni giorno della mia vita? È questo che i neri devono essere, sempre? E la condizione dei neri? Che condizione è? Intendi dire uno stato dell’esistenza? O una condizione clinica…come una malattia?
Lo scrittore, quindi, mette in luce un problema fondamentale per la letteratura afroamericana, ovvero il fatto di essere rinchiusa in schemi precostituiti da critici e lettori. Il libro dello scrittore, infatti, viene catalogato come «tentativo di elaborazione» e come «basato su eventi realmente accaduti». È come se uno scrittore afroamericano non sia capace di scrivere un’opera puramente di finzione, come se debba per forza farsi voce delle lotte della sua comunità:
Tutta la nostra storia parla di dolore e perdita, di schiavitù e oppressione. Ci definisce. Ci affonda nella pelle. È nel nostro sangue, anche se ne siamo coperti. Vogliamo solo essere diversi dal dolore in cui siamo noti. Vogliamo solo essere conosciuti per qualcos’altro. Vogliamo la grande storia che vediamo negli altri, invece riceviamo soltanto una storia di dolore che siamo costretti a superare.
Lo scrittore riconosce il dolore del Ragazzino e della madre del bambino ucciso nella sparatoria, ma riconosce anche che a volere questo suo impegno civile nella sua scrittura è, per dirla à la Baldwin, «un’autorità anonima e impersonale, molto più difficile da compiacere, e infinitamente crudele», ovvero i bianchi, che vogliono relegare l’esperienza afroamericana alla sola lotta per i diritti civili. Quello che intende fare lo scrittore è uscire dallo schema precostituito dello scrittore afroamericano che soffre, che vive il fardello del passato da schiavi della sua comunità, e rivendicare la propria libertà autoriale. Scrivere, dunque, «una storia d’amore», come ribadisce fin dall’inizio del romanzo.
«Che razza di libro!»: libertà di scrivere oltre la linea del colore
Che razza di libro che ha scritto Jason Mott: in tutti i sensi. Ironico e profondo allo stesso tempo, questo romanzo è un invito a tutti gli scrittori di superare quella che W.E.B. Du Bois definiva «la linea del colore». Che razza di libro! (acquista) rivendica la libertà degli scrittori afroamericani di fare letteratura uscendo da schemi precostituiti imposti da un certo razzismo sistemico che li vedono necessariamente confrontarsi con le lotte per i diritti civili e l’ingiustizia che subisce ancora la comunità afroamericana.
Jason Mott, e come lui tanti scrittori afroamericani, non rinnega il passato segregazionista e il presente di violenza e ingiustizia, ma semplicemente rivendica un modo autonomo e indipendente di fare letteratura, la libertà di abitare la narrativa presentando la propria esperienza senza sentire il peso di essere la voce di un’intera comunità.
“Devo scrivere dell’essere nero? E se fossi un artista che disegna solo personaggi bianchi? Che cosa direbbe questo di me?”
“Eh?”
“Voglio dire che gli scrittori bianchi non devono scrivere per forza dell’essere bianchi. Possono scrivere i libri che vogliono. Ma visto che sono nero…” mi fermo un attimo per guardarmi le mani e confermare che sì, sono effettivamente nero. Tutto combacia. “… posso solo scrivere della nerezza? Mi è permesso scrivere di altre cose? Mi è permesso essere altro, a parte il colore della mia pelle? Voglio dire, non saprei citarlo parola per parola, ma non è di questo che parlava il famoso discorso I have a dream?”
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