Ultimamente stiamo assistendo, almeno in Italia, alla tendenza – prettamente di matrice bolañana – a scrivere romanzi di scrittori alla ricerca di scrittori, epigoni dello Stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice, anch’esso dedicato al mistero della scrittura. Esempi in questo senso sono Un uomo sottile di Pierpaolo Vettori, Il grande karma di Alessandro Raveggi, ma anche Tutti gli appuntamenti mancati di Alice Zanotti. Tutti loro hanno posto al centro delle loro narrazioni scrittori che cercano di penetrare il mistero della scrittura attraverso autori evanescenti, misteriosi, la cui vita ha un labile confine con la scrittura: Daniele Del Giudice, Carlo Coccioli e Amelia Rosselli.
Un romanzo del genere ha vinto nel 2021 il prestigioso Prix Goncourt. Stiamo parlando di La più recondita memoria degli uomini (Edizioni E/O, 2022) di Mohamed Mbougar Sarr, primo autore subsahariano a vincere il prestigioso premio letterario francese, che con questo suo ultimo romanzo non solo si confronta con la questione post-coloniale francese, ma anche con il mistero più grande di tutti: la letteratura.
La trama di «La più recondita memoria degli uomini»
Le vicende narrate da Mbougar Sarr in La più recondita memoria degli uomini sono ambientate nel 2018 fra Parigi e Amsterdam. Il protagonista è Diégane Latyr Faye, giovane scrittore senegalese, autore di un breve romanzo caduto subito nell’anonimato, Anatomia del vuoto, e intento a scrivere il libro che potrebbe dare una svolta alla sua vita. Questa svolta è rappresentata dall’incontro con l’autrice senegalese Marème Siga D., considerata da Diégane «l’angelo nero della letteratura senegalese».
Durante un loro primo incontro, Siga D. mostra al protagonista un libro di cui era a conoscenza nel suo periodo di studente universitario: Il labirinto del disumano. Il suo autore è il misterioso T.C. Elimane, «il Rimbaud negro», «un fantasma», uno scrittore che dopo questo libro non ha scritto più nulla travolto da degli scandali, colui che «ti appare. Ti attraversa. Ti congela le ossa e ti brucia la pelle. È un’illusione vivente». Diégane, allora, si mette alla ricerca ossessiva del misterioso T.C. Elimane, che forse lo porterà a scrivere il romanzo della vita, oppure lo porterà semplicemente a mettersi alla ricerca del mistero della scrittura.
«La più recondita memoria degli uomini»: il caso di Yambo Ouologuem
Di La più recondita memoria degli uomini non colpisce tanto l’ispirazione bolañana, che si percepisce fin dall’inizio – il titolo deriva da una citazione, posta in esergo, da I detective selvaggi –, quanto dalla dedica a questo romanzo. Mbougar Sarr, infatti, dedica il romanzo allo scrittore maliano Yambo Ouologuem (1940-2017). Quest’ultimo era noto per il romanzo Le devoir de violence, con cui diventò il primo autore africano a vincere il Prix Renaud, e che contribuì a demistificare la visione del passato pre-coloniale africano idealizzato dal mito della négritude, una visione che altro non faceva che continuare a soggiogare gli africani agli stereotipi dei bianchi. Il romanzo è stato però considerato controverso, in quanto l’autore è stato accusato di aver plagiato brani da Graham Greene e altri autori occidentali, e ciò l’ha portato a ritirarsi dalla vita pubblica fino alla sua morte, nel 2017.
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Questo è il punto di partenza per Mbougar Sarr non solo per costruire un riuscito labirinto letterario di storie che si incastrano l’un l’altra – anche in questo c’è molto di Roberto Bolaño –, ma anche per riflettere su delle questioni in particolare, ovvero il rapporto fra editoria, società culturale e colonialismo. L’autore riflette anche sul concetto di scrittore africano, sul ruolo che deve avere in letteratura, e soprattutto su quello che può veramente fare nel momento in cui decide di diventare tale. L’autore riflette, di conseguenza, sulla percezione che l’editoria ha degli scrittori africani, su cosa si aspetta e vuole da loro e dai loro libri.
La questione post-coloniale in editoria
Lo scandalo attorno al Labirinto del disumano – e nella realtà attorno a Le devoir de violence – non ha tanto a che fare con l’accusa di plagio – accusa che nella finzione del romanzo riguarda il libro di T.C. Elimane –, quanto con l’idea di scrittore africano che l’editoria ha voluto costruire e vuole trasmettere ai lettori.
Già all’inizio del libro, Diégane percepisce come, nei suoi confronti e in quelli dei suoi colleghi, titoli altisonanti come “Nuove voci”, “Nuova generazione” e “Nuove penne” risultino già vecchi e prodotto di una visione della letteratura africana ferma nei suoi schemi, che più che essere letta è commentata, perché aleggia l’idea che sia solo capace di mostrare un mondo altro invece che di sperimentare.
Emblematico in questo senso è il dialogo del protagonista con Stanislas, traduttore dal francese di Witold Gombrowicz, dove emerge come i riconoscimenti dati agli scrittori africani siano un modo per la «Francia borghese» di mettersi la coscienza a posto. La stessa Francia borghese, secondo Stan, inventa l’illusione dell’universalità per prolungare il dominio coloniale anche sugli scrittori francofoni, che in realtà, a differenza di quanto sostiene Diégane, sono considerati ideologici. Ideologico era considerato anche Elimane, non solo dall’editoria francese, ma anche dagli stessi scrittori africani, soprattutto Musimbwa, uno dei giovani scrittori africani che Diégane incontra a Parigi, e che concepisce i plagi di T.C. Elimane come un modo per imitare gli scrittori bianchi e diventare parte di loro:
In fondo chi era Elimane? Il prodotto più riuscito e tragico della colonizzazione, il successo più eclatante dell’impresa coloniale, più delle strade asfaltate, degli ospedali e del catechismo, più dei nostri antenati galli! […] Ma Elimane simboleggiava anche ciò che quella stessa colonizzazione aveva distrutto presso i popoli che ne avevano subìto l’orrore naturale. Elimane voleva diventare bianco e gli è stato ricordato che non solo non lo era, ma non lo sarebbe mai diventato nonostante il suo talento. Ha fornito tutte le garanzie culturali della bianchitudine, ma ha ottenuto solo che lo rispedissero alla sua negritudine. Padroneggiava l’Europa forse meglio degli europei, e dove è finito? Nell’anonimato, nella scomparsa, nella cancellazione. Come sai, la colonizzazione semina nei colonizzati la desolazione, la morte e il caos, ma in loro semina anche – ed è il suo successo più diabolico – il desiderio di diventare ciò che li distrugge. Ecco cos’è Elimane: la tristezza dell’alienazione.
Il mistero della scrittura
T.C. Elimane, però, lamentava proprio questo: il fatto di non essere percepito come scrittore, ma come fenomeno mediatico, «un terreno di scontro ideologico». Nessuno ha cercato di comprendere come in realtà egli avesse preso brani della letteratura europea per riflettere sulla capacità degli scrittori africani di superare certi modelli letterari, per distruggere il passato di modo da poter perseguire una propria via invece che essere considerato un imitatore degli scrittori bianchi.
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Attraverso le prime righe del suo Labirinto del disumano, che narrano di un Re che avrebbe ricevuto il potere assoluto dalla terra in cambio della cenere dei vecchi, Diégane comprende, allora, la vera essenza della scrittura di T.C. Elimane:
[…] la verità del suo libro è la storia del sacrificio finale dell’uomo che per raggiungere l’assoluto uccide la propria memoria. Ma non basta uccidere per distruggere, e quell’uomo, che si tratti del Re sanguinario del romanzo o di Madag, aveva dimenticato la regola: gli uomini che sostengono di fuggire il passato in realtà gli corrono dietro e prima o poi finiscono per raggiungerlo nel futuro. Il passato ha tempo, aspetta sempre pazientemente all’incrocio con il futuro e lì apre all’uomo, che pensava di esserne evaso, la sua vera prigione a cinque celle: l’immortalità degli scomparsi, la permanenza del dimenticato, il destino di essere colpevole, la compagnia della solitudine e la salutare maledizione dell’amore. Madag l’ha capito dopo tutti gli anni di fuga. Ha capito che non solo Il Labirinto del disumano non metteva fine al passato, ma ce lo riportava dentro.
Elimane non si definisce scrittore in quanto racconta una storia o si fa portavoce della propria cultura. Si definisce scrittore in quanto continua all’infinito a combattere con se stesso, cercando di disfarsi del proprio passato per trovare una propria strada, quando in realtà è destinato a ritornare nel passato e a combatterlo fino all’infinito, lasciando incompleto il proprio unico, grande libro. Così Diégane giunge alla conclusione che la propria esistenza di scrittore è costellata da un dilemma: scrivere o non scrivere. Porre fine alla propria vita scrivendo oppure lasciarla incompiuta vivendo con la speranza che il futuro si possa realizzare.
«La più recondita memoria degli uomini»: la grande letteratura che parla del nulla
Mohamed Mbougar Sarr si è dimostrato capace di scrivere un romanzo (acquista) che non solo fa luce sul rapporto fra editoria e questione coloniale, ma che sa definire il concetto di scrittura e letteratura. Esse sono un viaggio verso «la più recondita memoria degli uomini», ovvero il nulla, che allo stesso tempo è il manifestarsi delle infinite possibilità della nostra vita. La scrittura è una continua battaglia contro il nostro passato, una battaglia senza fine che nella sua incompiutezza ci rende possibile un’idea di futuro.
La gente vuole che un libro debba parlare di qualcosa. La verità, Diégane, è che soltanto i libri mediocri o brutti o banali parlano di qualcosa. Un grande libro non ha un tema e non parla di niente, cerca soltanto di dire o scoprire qualcosa, ma quel soltanto è già tutto e anche quel qualcosa è già tutto.
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