Ritratti veri di persone immaginarie (Helvetia editrice, 2021) è un breve viaggio lungo le calli veneziane alla scoperta di segni e tratti indelebili, quelli che si celano dietro i volti di uomini e donne che vivono ai margini della società, soggiogati dal destino.
Dentro Venezia, nella città che J. P. Sartre ha definito «la più dolce e la più perfida fra le città del mondo», perché dimostra l’impossibilità dell’uomo, Giorgio Camuffo e Renzo di Renzo trovano l’ispirazione per la realizzazione di un libro-taccuino (acquista), in cui il non detto e l’immaginario dialogano costantemente con i disegni, i particolari estetici, e la scrittura essenziale, mai banale, che sa nutrirsi delle parole adatte per disvelare le storie, le nevrosi e le angosce di personaggi unici che allo stesso tempo preservano elementi archetipi.
Mistero e identità
I ritratti appena abbozzati (occhi, smorfie, carnagioni) delle persone – i naufraghi del mondo – rivivono nelle pagine la loro originaria dimensione di relazione autentica, quella dell’incontro faccia a faccia, senza mediazioni; dove lo sguardo dell’altro è lo specchio del nostro mondo interiore, ma anche alterità, identità incompiuta che scandaglia le coscienze in un processo mai esaustivo e definitivo.
Dopotutto, l’altro per noi è un mistero (nell’accezione di arcano, segreto), che stimola le nostre curiosità e fantasie; è desiderio e quindi mancanza. Ma proprio questo scarto ontologico è da una parte un dono per chi è in grado di superare le barriere del pregiudizio, del conformismo, dell’apparenza.
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È un prodigio per chi avverte l’urgenza di immaginare – come sembra anticipare il titolo del libro- il vissuto di chi non conosciamo o di chi abbiamo di fronte: lo sanno bene gli scrittori, i registi, gli artisti, i creativi. E così, non è un caso che alle fine del volume siano state inserite delle pagine bianche. Il lettore può infatti annotare pensieri, sensazioni: può confrontarsi con «l’umore malinconico che intacca la pelle», con le stigmatizzazioni, con le vite di travet, oppure con le figlie “strane”.
Dall’altra parte, proprio l’ignoto, l’indecifrabile essenza dell’altro, il non detto del testo, ci invita alla responsabilità individuale e collettiva, sfidando la tentazione dell’indifferenza. Come suggerisce Emmanuel Lévinas, in una realtà che è puro non senso, l’altro irrompe nel nostro mondo, mi guarda e mi riguarda. In particolare, il volto d’Altro mi impone un atteggiamento etico, mi interroga, mi coinvolge.
Contro il Potere
«L’estraneo che “non ho né concepito né partorito”, l’ho già in braccio». Nella relazione che è soprattutto dialogo di differenze, ci sentiamo quindi responsabili anche delle responsabilità degli altri. Nel tracciare e disegnare le nostre vite autentiche, esplorando sentieri sconosciuti dell’umanità, ci liberiamo delle maschere per poi accorgerci che c’è qualcosa di sacro nello sguardo.
E nonostante la nudità e la fragilità, esso si oppone alla violenza, a ogni rapporto di potere. Il visage è la condizione necessaria per la nostra apertura all’impenetrabile, tensione verso qualcosa che va oltre l’esperienza umana.
di Michele D’amico
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