Nel suo precedente romanzo Il nome della madre (NN Editore, 2020), Roberto Camurri scriveva del protagonista Pietro il suo desiderio di voler «sentire l’abbraccio di Fabbrico e delle sue radici che inizia a riconoscere». Fabbrico, un paese immaginario della Pianura Padana, con la sua nebbia e i «suoi campi che si perdono verso l’orizzonte lucido e infinito» (A misura d’uomo, 2018); un luogo da cui è impossibile fuggire, a cui bisogna per forza tornare, che sia fisicamente o coi soli pensieri.
Le persone hanno bisogno di Fabbrico, ma Fabbrico ha bisogno delle persone, soprattutto dello stesso Camurri, che è tornato in libreria con Qualcosa nella nebbia. Questo romanzo segna il ritorno dell’autore emiliano a Fabbrico, come scrittore ma allo stesso tempo come uomo.
«Qualcosa nella nebbia»: la trama
Qualcosa nella nebbia si svolge su due piani. Il primo vede protagonista uno scrittore, Roberto, che potrebbe essere lo stesso Camurri. Come l’autore, anche il protagonista presenta i suoi libri in Olanda, dove A misura d’uomo è stato veramente tradotto, ha una figlia e, come recita la bandella del libro, «lavora con i matti». Considerando, però, la tendenza all’autofiction della letteratura italiana contemporanea, potrebbe anche non esserlo.
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Lo scrittore protagonista sta lavorando a un nuovo libro – che diciamo già non è, come nella realtà, Il nome della madre –, che a differenza del precedente lo mette di fronte a una situazione del tutto inedita:
Ho scritto un libro che parlava di come ci si possa sentire in gabbia di fronte all’infinito, ora, nei racconti che ho iniziato, sento che c’è qualcosa di diverso, qualcosa che non capisco. Voglio scoprire dove mi sta portando, ascoltare ciò che mi sta chiamando.
Ho molta paura.
Qui entra in gioco, dunque, il secondo piano, ovvero le storie di Alice, Andrea (detto Jack per un aneddoto riguardante il Jack Daniel’s) e Giuseppe. È con loro tre, i loro drammi e le loro storie che Roberto dialoga, cercando di capire se è possibile abbracciare l’infinito, ma soprattutto se è possibile fuggire da Fabbrico e lasciarsela definitivamente alle spalle.
«Qualcosa nella nebbia»: narrare Fabbrico per capire se stessi
Più che un romanzo, Qualcosa nella nebbia (acquista) è un metaromanzo, un libro in cui Roberto Camurri si fa personaggio per riflettere sulla sua scrittura e sul suo rapporto non soltanto con i suoi personaggi, ma anche con il luogo immaginario di Fabbrico. Indice di questo sono i continui riferimenti al primo libro, come si evince dalla seguente affermazione dell’editore Jacopo:
Ecco, Bice. Scrivi della Bice. Sta lì, fa la barista, raccoglie le confessioni di tutti, gira per Fabbrico con la sua bicicletta e risolve gli omicidi. Ci facciamo i miliardi, le fiction su Rai 1. Sarebbe una grande idea, se solo ne fossi capace.
Roberto – sia Camurri che il suo alter ego – si interroga sul suo percorso da scrittore e sulla sua scrittura, ma soprattutto su quello che il suo immaginario rappresenta per lui. Riflette in particolare su Fabbrico, che nel libro viene rappresentata come una casetta in aperta campagna immersa nella nebbia che assume sempre più concretezza sfogliando il libro, a riprova della forte influenza che ha sulla scrittura di Camurri:
Mi interrogo su cosa sto scrivendo adesso, mi domando il perché. È una ricerca, non di una risposta, è la domanda che mi sfugge. A volte sento di poter allungare una mano e toccarla, a volte è confusa, la maggior parte del tempo non ha alcun senso.
Fabbrico secondo gli altri
Per analizzare il rapporto fra Fabbrico e Roberto, sarebbe meglio partire, quindi, dalle storie di quest’ultimo. Quelle al centro di Qualcosa nella nebbia hanno per protagonisti: Alice, donna con una carriera da attrice in tv costretta a tornare a Fabbrico per vicende personali; Andrea, che sembra condannato a restare a Fabbrico per sempre; e Giuseppe, che desidera lasciare Fabbrico, ma non l’ha mai fatto perché troppo legato ai ricordi della sua famiglia.
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Tutti e tre i personaggi vivono un rapporto complesso con Fabbrico. Alice ha provato a scappare da Fabbrico, e ritornandoci prova infatti «un’emozione molto simile alla vergogna». Per Giuseppe è il luogo che non può abbandonare perché spera nel ritorno di ciò che ha vissuto e perché ha bisogno dei suoi ricordi – anche quelli infelici – per vivere. Andrea, infine, associa Fabbrico a ciò che muore, come nel caso del suo primo cane, Cipolla, e all’impossibilità della felicità.
Tuttavia, restare o tornare a Fabbrico, con tutte le contraddizioni che ne conseguono, è una condizione necessaria per i personaggi. Fabbrico è sì come una gabbia di cristallo, che ti tiene intrappolato senza possibilità di fuggire, ma costituisce parte dell’identità dei protagonisti dei racconti. Fabbrico va, infatti, accolta per sentirsi vivi e continuare a esistere:
Il ritorno a Fabbrico, il paese che si colora per riabbracciarla, il verde dei campi e il giallo del sole e l’azzurro del cielo, la brezza che c’è a settembre e le serate all’aperto, e sente, mentre il centro diventa periferia, la voce di Fabbrico che le dice: torna, ho bisogno di te.
Fabbrico secondo Roberto
«Torna, ho bisogno di te», sembra dire Fabbrico ad Alice, ma anche a Roberto. Roberto vede Fabbrico in un cartello stradale, nei ricordi di quando era bambino quando inventava storie, ma soprattutto nello sguardo di una donna fra il pubblico in Olanda durante una presentazione, in cui riconosce il suo personaggio di Alice:
Quegli occhi erano le pagine bianche davanti al mio viso, erano la violenza che mettevo in quello che stavo scrivendo, la realtà che mi sfuggiva di mano. Un buco nero che sobbalza. Un passaggio per un altrove che sapevo di conoscere. Erano occhi che parlavano a qualcosa dentro di me, di così profondo che non ero capace di vederlo, erano gli stessi occhi di Alice.
Qualcosa che si è risvegliato.
Fabbrico – quella casa, quelle cinque punte – è dentro di me, lo so.
Nel momento della sua scrittura, Roberto passa dal concepire Fabbrico come «una gabbia confortevole» a «un fantasma invaso dai topi». Fabbrico che fa paura non solo ai suoi personaggi, ma anche a lui, perché non riesce a vivere libero dalla sua invenzione. Nella nebbia e nei fantasmi di Fabbrico, però, Roberto vede tutto ciò che è stato parte della sua vita: i suoi genitori, sua moglie e sua figlia, il suo lavoro con Mirco, ma soprattutto i luoghi dell’infanzia e dell’età adulta.
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Roberto da Fabbrico non può fuggire, così come non possono farlo Alice, Andrea e Giuseppe. È il luogo dove tutti loro hanno un senso, dove hanno le loro radici e il loro futuro, e dove possono trovare rifugio dai propri traumi e dalle proprie fragilità. In una parola, Fabbrico è casa. Tornando a Pietro di Il nome della madre, Roberto non se ne va da Fabbrico perché «quella terra, quella pianura, quei colori, quel cielo pallido e quell’umidità che ricopre i campi saranno sempre casa sua». Fabbrico è, dunque, l’infinito leopardiano che permette di fuggire dal quotidiano per immaginare infiniti mondi unendo i ricordi del passato al tempo presente.
«Qualcosa nella nebbia»: fare pace con Fabbrico
Se vi siete chiesti perché esiste Fabbrico, e perché esistono le storie di Alice, Andre e Giuseppe piuttosto che dei personaggi di Camurri come Bice, Pietro ed Ettore, in Qualcosa nella nebbia troverete la risposta. Con questo romanzo Roberto Camurri racconta come la letteratura sia, parafrasando Giorgio Caproni, un tornare là dove non si è mai stati: tornare ai luoghi fisici e mentali della propria vita rinnovando di volta in volta il legame con le proprie radici. Scappare da Fabbrico non è possibile, perché Fabbrico sono le nostre storie, il nostro passato, il nostro rifugio che ci aiuta a immaginare un futuro migliore. Fabbrico è letteratura, è vita.
Davanti alle persone che incensavano la mia scrittura, il mio modo di vedere il mondo, la mia capacità di raccontarlo: avevo racchiuso delle vite in una gabbia di vetro, l’avevo chiamata Fabbrico, l’avevo esposta nuda e fragile sotto gli occhi di tutti. Ero arrabbiato con loro perché avevo creduto alle loro parole, ero sicuro sarebbero bastate, non era così. Il buco tra lo stomaco e lo sterno si faceva di nuovo sentire, era ancora lì, c’era sempre stato. Non era la scrittura a riempirlo. Non erano gli applausi, il successo. Ero sconvolto, pensavo di essergli sfuggito.
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