È una storia che si imprime nella carne quella che Viviana Verbaro racconta in La rosa di Marghe (Rubbettino, 2023), agile testo di denuncia costruito come un romanzo a più voci, come un’inchiesta di fatti e sentimenti. Difficile non uscire scompigliati da questa vicenda, un caso di malasanità e silenzi (im)pietosi che stravolge la vita di più persone, innescando una spirale di dubbi, rimorsi, interrogativi senza risposta.
A mettere insieme i pezzi – cercando almeno di non strapparne i bordi – è Giulia, giovane cronista tornata dagli Stati Uniti in cui l’autrice proietta in parte sé stessa, o quanto meno quella vocazione al mestiere che è insieme verità e narrazione, ragione e sentimento.
Non che Verbaro, giornalista Rai e voce del GR, intenda mostrare l’invisibile, costruire un romanzo che indaghi gli elementi più controversi, i buchi neri della giustizia. La sua è piuttosto un’opera di raccordo, in cui confluiscono temi spesso al centro della cronaca, dalla malasanità alla fuga dei cervelli.
Oltre la cronaca
Tuttavia – ed è questo, forse, il maggior pregio dell’opera – il “grido d’allarme” assume una forma sfumata, slabbrata, dove i conti non tornano e ogni ipotesi è al tempo fondata e azzardata, come in un puzzle dalle tessere scheggiate.
C’è tanta imperizia in questa storia, un fanatismo che incrocia l’omertà, dove tutto sembra il contrario di tutto, in cui i fantasmi riemergono dalle corsie come echi di un tempo segnato, denso di irrisolti e di non detti. Marghe, questa donna che Verbaro tratteggia con grazia, è vittima di un errore sanitario imperdonabile, di un inciampo del destino che si accanisce contro il suo desiderio più grande, contro quella maternità agognata e mai vissuta, mentre attorno a lei il tempo si congela.
«La rosa di Marghe»: una storia sospesa
Sebbene alla sua prima prova narrativa, Verbaro mostra di conoscere le tecniche del romanzo di inchiesta e attorno a queste costruisce un racconto di dolore, che rompe le maglie del genere sostando in un territorio ibrido, sospeso come il finale di questa storia amara, troppo sbagliata per essere osservata in modo neutro, per restare ferma entro i confini della cronaca.
Così, lavorando per sottrazione, l’autrice immagina una Calabria mitica, sciascianamente delimitata mediante luoghi immaginari, funzionali alla riflessione su un generale stato di “cancrena”, dove il Sud si fa metafora di un sistema ingiusto, intimamente corrotto.
Nel nome il destino
Anche i nomi dei personaggi, all’apparenza generati da alchimie memoriali, nascondono un metodo preciso, parlano di un luogo che è contenitore di anime, deposito di spinte connesse a un’idea di destino.
Margherita, anzitutto, che nel richiamo floreale conserva un germe di libertà, di autodeterminazione, come le margheritine di Vera Chytilòva, uno dei film più emblematici della nuova onda cecoslovacca. O Alba, l’avvocato della famiglia, pronto a dare battaglia, a mostrare come sia possibile ri-nascere, o quantomeno invertire la rotta, pensare un mondo diverso.
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La realtà imbrigliata al corpo
In questo libro, che è anche un romanzo di donne – Marghe, Giulia, la madre Augusta, l’amica Carlotta, punto di coagulazione di ogni dubbio – la realtà è saldamente ancora al corpo, veicolo di altre identità, di tante verità.
Così il coma cui è condannata la protagonista diviene metafora dell’Italia intera, di uno stato vegetativo aggravato dall’anestesia morale dei suoi attori. Un corpo che ascolta inerme, la sfinge con cui i giornalisti e gli scrittori si scontrano con rabbia mista ad apatia, nello sconcerto più totale.
«La rosa di Marghe», una storia di silenzi
In questa prospettiva, è il silenzio la cifra essenziale de La rosa di Marghe (acquista), non solo un dato acustico – e di responsabilità – ma una scelta narrativa legata alla discrezione, all’urgenza di raccontare con tenerezza, per non cadere nella retorica. La sensazione, a lettura conclusa, è quella di assistere a una mimica, all’espressione di sentimenti e sogni mediante i gesti e lo sguardo, il solo veicolo di comunicazione reale, incapace di sostenere la menzogna, di farsi carico di altro dolore.
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