Paolo Nori è uno scrittore, un traduttore e un professore universitario. Ma, più di ogni altra cosa, Paolo Nori è un appassionato di letteratura russa, definitivamente marchiato da questo amore, di cui porta tuttora i segni. Questa passione, nata quando aveva solo quindici anni, si lega ad un titolo, la prima lettura russa della sua vita: Delitto e Castigo. Un’opera che oggi, come quarant’anni fa, riapre in lui una cicatrice ancora dolorosa. D’altra parte, come racconta lui stesso, riproponendo l’immagine ideata dallo scrittore Rozanov, un autore come Fëdor Dostoevskij non è che «un arciere nel deserto, con una faretra piena di frecce che, se ti colpiscono, esce il sangue». Dalla cicatrice aperta dell’esperienza di lettura e di vita con il maestro della letteratura russa nasce Sanguina ancora, l’ultimo lavoro di Paolo Nori, edito Mondadori e tra i finalisti del Premio Campiello 2021.
«Il senso di leggere Dostoevskij io non lo so, so che Dostoevskij, anche se non lo leggiamo, ci ha detto, nelle cose che ha scritto, come siam fatti prima ancora che venissimo al mondo (…) e ho avuto, me lo ricordo perfettamente, la sensazione che quella cosa che avevo in mano, quel libro pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Sanguina ancora.»
Un dialogo tra due esistenze
Il libro prende il nome proprio da quella ferita che Sanguina ancora: una sincera dichiarazione d’amore e fedeltà all’autore che più lo ha segnato irreversibilmente, Fëdor Dostoevskij. Tra le pagine di questo saggio, lo scrittore russo riprende vita, ripercorrendo tutti quei momenti curiosi e sensazionali che hanno reso la sua esistenza «incredibile», come suggerisce anche il sottotitolo in copertina.
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Nori non si limita a tratteggiare un ritratto inedito e appassionato, ma propone ai suoi lettori un vero e proprio dialogo tra due vite, la sua e quella dell’autore, che, seppure apparentemente così distanti, s’intrecciano tra loro in un legame indissolubile. D’altronde, la storia di Dostoevskij non è altro che quella di un uomo «goffo, calvo, un po’ gobbo, disperato, confuso, contraddittorio, che riesce a morire nel momento del suo più grande successo, così simile a noi». Un uomo vivo, rivoluzionario, fragile, che, pagina dopo pagina, si rivela sempre più umano, rinunciando a quel tradizionale ritratto austero e distante di autore classico, in cambio di un’autenticità fatta di carne ed ossa.
La letteratura è vita
La fragilità che sta al centro della figura di Dostoevskij e della sua letteratura è la ragione per cui Sanguina ancora è un lavoro che funziona perfettamente. La ragione è molto semplice: tante volte abbiamo sentito dire quanto la letteratura sia importante perché è vita vera, una vita fatta di esperienza, di condivisione, per cui quelle vite che scopriamo leggendo diventano vite nostre. La letteratura di Dostoevskij fa un passo in più. Non solo ciò che vivo, ma come lo vivo. Cosa provo, quanto mi sento fragile e quanto profondamente, di fatto, lo sono. Lo stile realistico degli ambienti e delle descrizioni non è la più spiccata e straordinaria capacità di verità di Dostoevskij, per quanto eccezionale, bensì ciò che rappresenta la verità della sua parola è descrivere l’animo umano in un mondo terribilmente reale. È l’animo che irrompe sui luoghi, sulle situazioni, sui treni e sui viaggi che pure così brillantemente descrive.
Questa realtà è tale che si incrocia non soltanto con la vita dell’autore russo, ma anche del suo lettore che adesso, da appassionato, fan, ma anche critico, mostra tutta la sua inerme ammirazione. Inerme poiché non riesce a prescindere dal legame che le pagine hanno instaurato con la sua esistenza, non vi può resistere e sembra non volerlo neppure fare. In Sanguina ancora si incrociano tre vite: quelle dei personaggi, quella di Dostoevskij e quella di Nori. Allora il libro è una biografia, un’autobiografia, una critica letteraria e anche una stupenda confessione che dal «sottosuolo» giunge a noi.
A casa principalmente leggevo. Avevo bisogno di soffocare con sensazioni esterne tutto quello che mi s’era accumulato dentro. […] Le piccole passioni in me erano sempre acute, roventi, a causa della mia congenita, morbosa sensibilità. Mi venivano degli attacchi isterici con lacrime e convulsioni. Mi assaliva una voglia isterica di contraddizioni, di contrasto. […] Fin da allora mi portavo nell’anima il mio sottosuolo…
Fëdor Dostoevskij, «Memorie dal sottosuolo»
«Sanguina ancora»: rinascere attraverso la ferita
Non si tratta del banale «la letteratura è verità», in quanto questa verità di cui parliamo è ancora più vera di quanto si possa pensare. L’autore ci restituisce pensieri che chiunque abbia mai letto Dostoevskij avrà sicuramente avuto almeno una volta. Indiscutibilmente leggendo lo scrittore russo mi sento compreso, mi rivedo in ciò che leggo, e mi percepisco come essere umano e fragile, accettandomi per ciò che sono. Accetto nella crudeltà dell’esistenza la mia inutilità, ma anche la mia grandiosità, perché se penso che non sono solo, se rivedo in quelle parole ciò che io stesso provo, allora nell’umanità qualcosa di grandioso c’è. Ma non è tutto qui, nella pedagogia semplice, che si esprime la straordinaria bellezza della lettura. Bensì nel continuo parallelismo tra ciò che avviene nelle vite (la sua e quelle che ha scritto) di Dostoevskij e l’animo di Nori e nella capacità dell’autore russo di parlare anche del taciuto, di ciò che stentiamo ad affrontare. Una simbiosi data dalla gratitudine del dolore, una ferita-verità che, per fortuna, continua a sanguinare.
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Il paragone della ferita e del sangue rende perfettamente il concetto di sofferenza e rinascita, poiché sanguinando possiamo rimarginare cicatrici. Un rosso d’amore e di fuoco verso la bellezza della lettura. Verso quel momento, descritto brillantemente da Italo Calvino o da Umberto Eco, in cui il lettore e l’autore diventano un tutt’uno non nella semplice comprensione di un testo, ma nella comprensione di un animo. Nel dialogo di un tu che corrisponda a un mio io. E allora i demoni umani che Dostoevskij ha intensamente analizzato, nella semplicità complicatissima del suo essere uomo, diventano angeli di crescita e consapevolezza. Ma non è per una forma di utilità che dobbiamo essere grati a questa lettura, Nori lo dice chiaramente che non sa quale sia il senso di leggere Dostoevskij, ma indubbiamente ci mostra che, sensato o non sensato che sia, costituisce per noi uno specchio della nostra anima.
In Sanguina ancora (acquista) Nori non restituisce semplicemente, quindi, un saggio o un lavoro di critica sull’autore russo, che del resto vanta tantissime analisi approfondite di stili e temi, ma un viaggio originale in cui tra parallelismi, aneddoti e in brevi paragrafi non si risponde alla domanda «Perché leggere Dostoevskij?», ma, probabilmente, dalle risposte che l’autore ci ha fornito, si comprende quali domande è bene porsi.
Dobbiamo leggere Dostoevskij quando ci sentiamo a terra, quando abbiamo sofferto sino ai limiti del tollerabile e tutta la vita ci duole come un’unica piaga bruciante e cocente, quando respiriamo la disperazione e siamo morti di mille morti sconsolate. Allora, nel momento in cui – soli e paralizzati in mezzo allo squallore – volgiamo lo sguardo alla vita e non la comprendiamo nella sua splendida, selvaggia crudeltà e non ne vogliamo più sapere, allora, ecco, siamo maturi per la musica di questo terribile e magnifico poeta.
Hermann Hesse, «Leggere Dostoevskij»
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