Quasi come se fosse volere del destino, il 25 novembre – Giornata contro la violenza di genere – Giulio Perrone Editore ha pubblicato l’opera prima di Mirfet Piccolo, Senzanome. L’uscita non era destinata a quella data, ma il tempo la fa da padrona e mistero volle che il romanzo venisse pubblicato proprio quel giorno.
Ma perché Senzanome è così importante in una giornata come quella del 25 novembre? Perché – benché sia un esordio – è necessario leggere questo libro per avvicinarsi e sfiorare – sarebbe difficile comprendere in toto – la violenza di genere?
«Senzanome»: la trama
L’esordio di Piccolo racconta la vita di una donna, dalla sua infanzia all’età adulta, attraverso brevi frammenti di ricordi. Questi piccoli squarci della sua vita vengono ricondotti a tanti piccoli post-it che la donna ha raccolto e scritto negli anni. Quando la figlia le chiede spiegazioni riguardo un racconto d’infanzia sconclusionato, la donna non può far altro che riportare tutti i post-it alla luce e ricollegarli fra di loro, seguendo il filo dei ricordi, ponendoli davanti a sé come se fosse una poliziotta alle prese con un caso difficile.
La cornice che unisce tutti i ritratti della sua vita è, appunto, la relazione fra lei e sua figlia. Si vede come il desiderio di donarle una vita felice la porti a riordinare i suoi ricordi e fare pace con il suo passato. Questo, infatti, non l’abbandona mai, perseguitandola durante la notte.
La storia di un’ingrata
Ciò che la donna ritrova nei suoi post-it è angosciante e colpisce nel vivo il lettore fin dai primi paragrafi. È la storia – la vita – di una bambina abbandonata ai margini della società, di cui nessuno si interessa e che nessuno ha intenzione di proteggere. Vive in una famiglia povera, composta solo da una madre violenta e una sorella altezzosa, barattando gioielli per strada in cambio di spiccioli con cui potersi permettere dei fumetti. Lei, silenziosa e garbata, in quell’inferno attende il ritorno di un padre che non arriverà mai e impara ad accettare ciò che le capita con uno stoicismo innaturale.
La bambina è un corpo che cammina a testa bassa tra le strade della città, un corpo che sale sull’autobus e sul tram e che piange sangue tra le gambe, piange sangue tra le cosce e il sangue si mischia al piscio e tutto va giù, lungo i pantaloni. La prima volta non si scorda mai […]
Dieci anni quanti sono? Dieci anni sono tanti o pochi?
Sembra quasi un sogno quando la bambina viene lasciata a due affidatari temporanei, che la trattano dolcemente come se fosse figlia loro. Infatti, questo momento di pace che appare come un’oasi nel deserto, sparisce in fretta, lasciando spazio all’inferno. La bambina viene abbandonata in un istituto in cui rimane per la maggior parte del suo tempo e dove la lontananza dalla madre sembra giovarle. Ma anche l’istituto nasconde i suoi mostri, come il ragazzo più grande e il rettore. Il primo le fa violenza per la maggior parte delle notti, mentre il rettore – che vede e sa tutto – si nasconde insieme ad altri bambini.
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Una violenza senzanome
Non esistono nomi nel romanzo. Non ha nome la protagonista, la figlia, la madre aggressiva o nessuno di quelli che perpetua violenza su di lei nel corso della sua vita. Perché ad oggi la violenza non ha nomi come se non avesse nemmeno colpevoli. Si fa finta di non sapere, di non vedere, si fa finta che tutto sia sempre andato bene, quando sotto il tappeto si nascondono le urla e il dolore. Così come nel romanzo, nessuno si interessa della bambina o del suo benestare: anche i gentili affidatari l’abbandonano senza dire nulla nelle braccia brutali della madre.
Bisogna stare zitti, accettare e perdonare chi ci colpisce, dando la colpa a se stessi per averlo permesso. La bambina non si lamenta mai, non reagisce mai, viene elogiata per rimanere brava e buona, silenziosa nel suo dolore. Se all’inizio non comprende come questo possa essere un difetto, durante la sua vita diventa essenzialmente una sua caratterista, lasciandosi sballottare dalle violenze perpetuate su di lei.
La giovane donna sta facendo la brava figlia, sta cioè facendo esattamente ciò che chi non sa – chi ignora, chi viene da un’altra dimensione spaziotemporale, chi ha la fortuna di non riuscire neppure ad immaginare la sua realtà nascosta – esige di vedere da lei: una brava figlia che accompagna senza indugio la propria madre ovunque lei chieda di andare, una brava figlia si prende cura della vecchiaia e di allontanare la morte di chi le ha dato la vita. […] Passami la valigia, le dice, ché l’utero me l’hai rovinato tu quando sei nata, con quella testa grossa che ti ritrovi.
Un racconto necessario
Senzanome (acquista) è ambientato nella periferia milanese, ma è un racconto che riesce a diventare universale. Una vita che possiamo ritrovare ovunque, basta che si accenda il telegiornale per pochi minuti. La bambina è tante bambine che diventano quelle ragazze e quelle donne che sono la donna che ha paura della notte, quella donna che riordina i post-it. Quella donna spaventata dal ragazzo più grande, che continua a cercarla. Quella donna senza giustizia, che desidera solo una vita migliore per la figlia.
L’esordio di Piccolo è un’opera, quindi, di grande rilevanza. Seppur con qualche sbavatura, dovuta alla frammentarietà dei brevi racconti, che però rimarca la mancanza di linearità nella memoria in una vita costellata da traumi, la storia è pregna di significato e bisognosa di comunicare un messaggio. Un tema che è sempre rischioso da esplorare ma che viene declinato con brutale dolcezza. Una lettura difficile e impegnativa, ma che bisogna affrontare.
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