A tu per tu con Shirley Jackson

Una guida alla scrittrice che ispirò Stephen King

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hill house

«La cosa più bella dell’essere una scrittrice è che puoi permetterti di abbandonarti alla stranezza quanto vuoi». Queste parole della scrittrice statunitense Shirley Jackson, conosciuta altresì come “la strega del Vermont”, costituiscono apertamente il manifesto letterario e, al contempo, l’essenza più intima della scrittrice.

È stata recentemente riscoperta grazie a fortunatissime produzioni cinematografiche e alla prestigiosa casa editrice Adelphi, che ha restituito una meritata dignità alle sue opere conturbanti. Così Jackson si riappropria di un successo che purtroppo le è stato negato in vita.

Un successo che, tuttavia, ha trovato un modo per emergere, un grimaldello in grado di superare persino la morte e l’oblio che, a volte, ne consegue: Stephen King. Lo scrittore del Maine, infatti, ha più volte dichiarato come la sua fama sia da ricercare proprio nelle opere di Jackson, che lo hanno sempre guidato e ispirato.

Chi era Shirley Jackson?

Shirley Jackson nasce nel 1916 a San Francisco, California. La sua formazione avviene nella piccola cittadina di Burlingame, nella contea di San Mateo. Giovanissima, a soli 12 anni vince il suo primo premio letterario con la poesia The Pine Tree. Così inizia a farsi strada in un ambiente prettamente maschile e sessista.

Dopo il trasferimento della famiglia in una grande metropoli come New York, Jackson si iscrive alla facoltà di giornalismo all’Università di Syracuse. Inizia a pubblicare i suoi primi articoli sulla rivista letteraria studentesca e a coltivare la sua passione per la scrittura. La sua determinazione, che la rende da subito una studentessa modello, va ravvisata anche nella sua imposizione di scrivere almeno mille parole al giorno, abitudine che la accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni. Di aspetto minuto, la piccola Shirley subisce delle profonde molestie psicologiche – anche da parte della madre. Questo la porta a isolarsi e a trovare conforto nella scrittura, l’unica ancora di salvezza in un contesto fortemente ostile. La vita della scrittrice non sarà felice: sposerà un uomo profondamente maschilista, traditore e dalla mentalità ottusa, dal quale avrà quattro figli. Riuscirà a trovare un po’ di pace soltanto negli ultimi anni della sua vita, poco prima di morire di insufficienza cardiaca nel sonno. Aveva solo quarantotto anni.

Una musa ispiratrice fra normalità e pazzia

«In ricordo di Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce». Con questa epigrafe Stephen King, nel suo romanzo L’incendiaria del 1980, omaggia la compianta Shirley Jackson. La rende così una figura di spicco nella sua formazione letteraria – una musa ispiratrice – ed elogia le capacità della donna di far sentire la sua voce, senza mai gridare, bensì bisbigliando. E sono proprio i sussurri e le parole non dette a rendere unica la sua opera omnia, come anche le voci mormorate nel vento, gli sguardi celati e i segreti. Shirley Jackson concepisce romanzi e racconti dotati di una atmosfera straniante, aliena, turbativa. Un «crescendo di brividi sommessi e progressivi», come dichiarò la contemporanea scrittrice di Jackson, Dorothy Parker.

Avvalendosi di un linguaggio ricercato, talvolta criptico, Jackson concepisce – sia nei suoi racconti che nei suoi romanzi – un mondo in cui le nevrosi della sua vita si trasformano in letteratura, in una perpetua oscillazione fra normalità e pazzia, fra risanamento e malattia. Questo continuo movimento oscillatorio, in aggiunta a storie ben congegnate e studiate in ogni minimo dettaglio, fanno sì che i lavori della scrittrice di San Francisco siano divenuti celebri come classici del terrore. Lo stesso Stephen King, riferendosi alle opere di Jackson, sottolineò quanto detto, aggiungendo che lo sono perché «finiscono con una svolta che porta dritto in un vicolo buio».

Ma analizziamo più da vicino le sue opere più celebri.

La Lotteria (1948)

Comparso nel 1948 sul periodico statunitense New Yorker, l’audace quanto provocatorio lavoro di Jackson (acquista) scatenò un vero pandemonio. Infatti, molti lettori e anche diversi critici letterari non solo lo stroncarono nettamente, ma inviarono altresì missive indignate alla redazione del giornale per aver pubblicato un’opera tanto azzardata quanto disturbante. Nell’edizione italiana, edita dalla prestigiosa casa editrice Adelphi, il racconto – inserito in un volumetto dall’audace copertina rossa – appare corredato di altre tre storie brevi: Lo sposo (The Deamon Lover), Colloquio (The Colloquy) e Il fantoccio (The Dummy).

Ogni storia si apre in un’atmosfera idilliaca, pacata, quasi bucolica, che accompagna il lettore per un breve lasso di tempo. Subito, infatti, il ritmo del racconto diventa più incalzante, preannunciando un completo ribaltamento della situazione iniziale. Un libricino che si legge tutto d’un fiato, nel giro di un’ora, ma da sfogliare e rivedere periodicamente, per comprenderne appieno il messaggio criptato, la moralis di fondo. Un viaggio nello studio delle nevrosi umane e della pazzia che, talvolta, può offuscare anche l’animo dell’uomo più puro.

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L’incubo di Hill House (1959) e Abbiamo sempre vissuto nel castello (1962)

Si tratta certamente dei romanzi più celebri di Jackson, nonché di due capisaldi della letteratura gotica del XX secolo, sicuramente immancabili nel bagaglio letterario degli amanti del genere.

Il primo, salito alla ribalta nel 2018 grazie all’omonima serie tv targata NetflixThe Haunting of Hill House –, ha sicuramente riacceso un interesse in parte sopito per la scrittrice. In questo lavoro – spesso paragonato per affinità tematica a Il giro di vite di Henry James – tornano tutti i temi e gli elementi essenziali cari a Jackson. Un’eroina sventurata, Eleanor Vance, imprigionata in una dimora lugubre e infestata, intenta nel vano tentativo di mantenere la sanità mentale. La psicosi, altro macro-tema caro alla scrittrice, pervade tutte le pagina del romanzo, fino alla rivelazione finale. Eleanor diventa una vittima della sua stessa malattia mentale, cadendo vittima dell’elemento maligno del romanzo, la casa. Ed è sempre una casa – un castello, stavolta – a far da sfondo alle vicissitudini delle sorelle Blackwook, anch’esse intente a farsi strada fra le inquietudini e le nevrosi di una cittadina tanto ostile quanto malata.

Nel suo saggio Danse macabre del 1981, Stephen King definisce entrambi i romanzi – soprattutto il primo – le maggiori influenze delle sue opere. Ed è proprio grazie a King se oggi Jackson, che si è sempre battuta per emergere e per non soccombere a chi ha cercato – sebbene qualcuno, almeno in parte, ci sia riuscito – di tarparle le ali, non è finita nel dimenticatoio di tutti coloro che hanno audacemente scavato nelle contraddizioni – e, perché no, nei lati più oscuri – dell’animo umano.

Giulia Mariani

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Redazione MM

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