Simona Vinci, Premio Campiello 2016, torna a indagare l’oscuro e il conturbante con L’altra casa (Einaudi Stile Libero, 2021) (acquista). Nel farlo, aggiunge un nuovo mattone alla tradizione gotica, bussando alla porta di Henry James e Shirley Jackson per costruire un horror psicologico che attinge ai temi delle grandi narrazioni passate.
Una casa è chi la abita
Villa Giacomelli è un complesso alle porte di Bologna che come tanti altri inizia la propria storia nel corso del Settecento. Viene abitata da Giuseppina Pasqua, cantante lirica e amante di Giuseppe Verdi, di cui non si stanca mai. La sua voce infatti – pare – ancora oggi risuona melodiosa tra le pareti colorate. Questo non succede di rado, i nuovi ospiti la sentono cantare accostando l’orecchio a questo o quell’angolo. Sentono grida, lamenti.
Immaginò che da qualche parte potesse esserci l’ingresso di un tunnel segreto che conduceva alle viscere della Terra, in una caverna oscura che conteneva il cuore grasso e pulsante della casa. Un cuore enorme, un cuore tripartito come quello dei rettili e collegato alle vene e ai capillari vegetali che percorrevano muri e tetto.
Ma chi è che parla? Chi ascolta? C’è un cuore, da qualche parte, che infonde la casa di una strana vita. Un cuore che palpita a immagine e somiglianza di quello racchiuso nel petto delle persone che la abitano. Perché la casa è Giuseppina, raffinata ed elegante, triste e decadente. È Maura, che non ha paura, ma si sente parte dell’essenza più profonda di quel luogo malinconico. Lei, che ha subito un intervento alla tiroide e teme di non tornare mai più a esibirsi, ma deve ricominciare da lì, da un evento organizzato e infiocchettato per lei. È Fred, il suo agente, che ha una moglie e non può darsi a Maura fino in fondo, nemmeno se di mezzo c’è un figlio non nato. È Ursula, austera, ruvida, con la bocca piena di non detti e le mani troppo ferite per accudire Maura come le è richiesto di fare.
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Perché «le case non ti ingoiano. Sono gli esseri umani a fare i casini, non i mattoni o le travi» e allora il vortice sanguigno che annega i personaggi tra tende damascate e alti soffitti non basta. Occorre scavare più giù, nello stomaco di ciascuno, per cercare verità masticate fino a venire sciolte, compromesse e dimenticate.
La Casa
Il topos della casa stregata affascina da sempre e da sempre ritorna assumendo fogge diverse di tempo in tempo, di storia in storia. È l’emblema di un microcosmo altamente personale, quasi inviolabile, a cui ogni individuo attribuisce un diverso grado di sacralità mistificatoria. Travi e mattoni perdono il loro carattere oggettuale, arrogandosi seducentemente lo status di affetto. Amore, perdita, autodeterminazione: tutto passa per di lì, tutto impregna i pavimenti, staziona sui soffitti. Tutto si aggrega, denso, e affolla le stanze così che l’ambiente non possa prescindere dall’essere pieno di noi.
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Facendo zapping nell’immaginario condiviso, esiste una vignetta che raffigura una casa con gambe e braccia lunghe, tese ad afferrare una bambina con lo zaino in spalla. Esiste una casa nera e tetra che attira fulmini e sguardi e desideri. Esistono case invitanti, di marzapane, e altre fragili come paglia al vento. Poi, esiste una casa antica, stranamente familiare, dentro cui – non si sa perché – ma si vorrebbe sbirciare. A far capolino è un istinto infantile, che attinge al periodo in cui il mondo era costituito da un quartiere e le case degli altri si vedevano per lo più da lontano.
Questo Simona Vinci lo sa, così come sa che l’istinto di proiettare sé stessi su qualcosa di fisico e immutabile genera dipendenza. Che osservare il possesso altrui a volte trascende la logica del desiderio puro e semplice. Nelle case degli altri leggiamo occasioni mancate, felicità perse. Lo facciamo da sempre, sulle soglie del feticcio:
Rare volte noi bambini eravamo ammessi gli uni alle vite intime degli altri che si svolgevano tra pareti di case gestite da adulti, nell’odore sconosciuto di cucine diverse, nella penombra di soggiorni con tappezzerie di cretonne e stanze da letto con le porte socchiuse. Gli oggetti, tutti, erano affascinanti ai limiti del furto. Ciò che un’altra famiglia possedeva sembrava sempre più lussuoso e desiderabile per il solo fatto che era diverso da quello che avevamo noi.
Così scrive Vinci in Mai più sola nel bosco, affondando le mani nelle fiabe dei Fratelli Grimm ed estraendo il nocciolo a cuore del libro. L’intima vita che si svolge tra pareti gestite da altri, un’altra famiglia, un ché di nuovo e diverso, lontano. Un ché di perso per sempre, che gioca con l’idea di solitudine e con l’ontologica paura di essa. La casa degli altri, la testa degli altri: i luoghi in cui ogni cosa sembra assumere senso, o quantomeno più senso di quanto non succeda all’interno delle proprie. «Mai più sola nella casa», allora diventa una minaccia, un augurio, un monito utile. Un mantra che attrae e respinge, si attanaglia all’io più profondo in una tragica orbita centrifuga da cui pare impossibile sottrarsi.
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