Nel 1920, al tempo della Rivoluzione d’Ottobre, Roman Jakobson scriveva che «ciascuno di noi ha vissuto non una, ma dieci vite in questi ultimi due anni». Un’osservazione certo applicabile ad altre fasi della nostra Storia, non ultima quella lacerante, dolorosa nella sua sospensione, della pandemia da Covid-19.
Non è un caso, forse, che un libro come Sparire di Tiziana Plebani (Linea Edizioni) sia uscito nel 2020, l’anno più burrascoso di questa interminabile crisi; una fase senza ordine e confini, di affetti dimidiati, di graffi che maturano in cancrena. Difficile dar conto della “glaciazione” seguita alla distanza fisica tra simili, ma quello che l’autrice tenta qui è piuttosto un contrasto dell’ovvietà dei nostri tempi, così assediati da passioni fragili e sbiadite.
«Sparire» oltre lo sguardo
In questa prospettiva, Sparire si configura come una lente di ingrandimento sull’anestesia empatica di cui osserviamo, oggi, i sintomi macroscopici e che Plebani focalizza attraverso una narrazione caleidoscopica, quasi corale, che pone al centro la vita di chi si pone ai margini, invisibile all’occhio “neutro”.
È lo sguardo, difatti, il vettore di un’indagine che procede dal basso, da quello spazio abbandonato e privo di potere che è la strada, dove si incrociano le storie di personaggi altri, diversi dalla massa perché esiliatesi da questa, in uno stato di latitanza che è anche ri-appropriazione di sé, del proprio tempo interiore.
Racconti dal margine
Quelli che, con un’oscillazione di registro, chiamiamo “barboni”, “clochard”, “homeless”, “straccioni” si fanno portatori di una visione sghemba dell’esistenza, di uno sguardo dal margine che consente di individuare le crepe sulla superficie apparentemente liscia del quotidiano.
Cinque anime, quelle del romanzo di Plebani, unite da un destino di solitudine e da un gancio col mondo esterno – della vita “normale” – costituito da un omicidio, tra i vari fattacci quello più innaturale di tutti. Rovistando nei cassetti della propria storia, ciascuno trova un ricordo, un dettaglio, qualcosa che lo lega all’esistenza della vittima, e non è peregrina quest’intersecazione di piani, quest’impasto di ricordi e sensazioni, di partizioni temporali che oscillano tra passato e presente, tra mondo “di fuori” e mondo “di dentro”.
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Individui e società in «Sparire»
Il delitto è una sonda, un osservatorio privilegiato sulle storture della normatività sociale, quel sistema che i protagonisti rifiutano dopo averne toccato il fondo, in un addio prolungato che è rigetto dei canoni, accettazione della non appartenenza.
Così Pulviscolo, un avvocato che ha abdicato persino al suo nome per assumerne uno impalpabile, come la polvere di questa esistenza, decide di stipare il suo io «in una soffitta disabitata dell’anima», il luogo dove dimorano i fantasmi prima di spingersi oltre, di andare verso la luce.
Riappropriazione e scoperta
E ancora Giovanna, ex modella anoressica, celiaca, abulica, astemia, che lascia un mondo ingannevole e si riappropria del suo corpo martoriato da sacrifici e rinunce, da sorrisi strappati o nascosti ai flash dei fotografi in quel teatro di finzione che è la sfilata di moda.
Giovanna che passa dagli abiti estrosi a un cumulo di stracci e trova la chiave della rinascita in questa ridda di personaggi diversi, «vestiti da uno stilista psicotico», che hanno lo stesso sguardo di Branko, croato di Vukovar forgiato dalla guerra, senza più casa e senza timori.
«Sparire» e il rifiuto delle convenzioni
«Siamo una sorta di peste nelle vostre città» si legge a un certo punto di Sparire (acquista). Quasi una “maledizione” che ricorda quella dell’epigrafe di Se questo è un uomo, laddove Primo Levi si scaglia contro l’oblio, contro l’indifferenza della memoria.
Del resto, la vena narrativa di Tiziana Plebani è intessuta di reminiscenze classiche e riposa in quella tradizione mai prona alle convenzioni sociali, al sistema delle apparenze costruite intorno al rapporto tra uomini, e a quell’impasto vischioso che chiamiamo normalità.
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