Secondo gli esperti, la sesta estinzione consiste nella scomparsa di esseri viventi dovuta a eventi catastrofici causati dall’attività degli esseri umani, come il cambiamento climatico, il boom demografico e la riduzione delle risorse non rinnovabili. In questa sesta estinzione, l’essere umano rischierebbe di essere l’unica forma di vita sulla terra, e in un’epoca di estremo individualismo come quella del neoliberismo rischierebbe di restare ancora più isolato fra gli altri uomini, diventando così l’homo homini lupus di hobbesiana memoria.
Sette anni dopo il suo ultimo romanzo Rosso nella notte bianca, Stefano Valenti, già vincitore del Premio Calvino e del Premio Campiello Opera prima, è tornato recentemente in libreria con Cronache della sesta estinzione (Il Saggiatore, 2023), che intenta raccontare l’estremo isolamento dell’uomo in una società sempre più individualista, alienata e sola.
La trama di «Cronache della sesta estinzione»
Cronache della sesta estinzione racconta la storia di un uomo senza nome. Un ricercatore di filosofia, traduttore freelance di testi narrativi e politici per importanti case editrici vissuto presso una famiglia benestante che lo ha sottratto da una vita difficile e da una famiglia working class originaria delle montagne incapace di provvedere al benessere del figlio. Alla morte dell’anziana donna e madre adottiva, l’uomo è costretto a lasciare l’appartamento e a comprare un furgone Ford Transit, conducendo così una vita da homeless.
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Il protagonista, però, è affetto da un male incurabile, il male del nostro tempo, quello che Giuseppe Berto definiva “male oscuro”: la malinconia. Lontano dalle proprie radici e rifiutato da tutti, l’uomo intraprende un viaggio nell’abisso più profondo. A fargli da guida il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, che da eroe borghese e illuminista diventa rappresentante di un neoliberismo che spazza tutto e tutti e che ci condanna alla solitudine e all’isolamento.
«Cronache della sesta edizione» e il rovesciamento della figura di Robinson Crusoe
È Robinson Crusoe, dunque, l’elemento chiave di questo romanzo. Personaggio che rappresenta l’eroe della borghesia e dell’Illuminismo, colui che con la ragione e il suo spirito imprenditoriale riesce a essere padrone del proprio destino, la figura di Crusoe è stata reinterpretata in modi diversi. Pensiamo al film Castaway di Robert Zemeckis, con Tom Hanks protagonista a interpretare il ruolo di Chuck Noland, un Robinson Crusoe capitalista “cast away”, ovvero “scartato, rifiutato” dalla società capitalista, che ti spreme fino alla fine privandoti di ogni cosa – soprattutto gli affetti – per poi gettarti via.
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Se, però, Robinson Crusoe e Chuck Noland hanno degli strumenti per salvarsi, il malinconico protagonista anonimo di Cronache della sesta estinzione vede nella morte dell’anziana donna una «salvezza spaventosa» in preda alla «vergogna di non avere strumenti coi quali potermi difendere». La vergogna a cui fa riferimento il protagonista è quella del neoliberismo e della società della prestazione teorizzata da Byung-Chul Han, che ti fa sentire in difetto in quanto incapace di produrre una prestazione e di essere utile alla società, pronto a darti la colpa di ogni fallimento, in particolare se si mette se stessi al primo posto invece che il lavoro:
Forse questo è ciò che ci si dovrebbe aspettare da un uomo isolato per un periodo così lungo. Ma a volte sembra che Defoe, nel descrivere Robinson Crusoe, non parli soltanto di un uomo che per caso finisce con l’essere isolato, ma presenti un’allegoria della vita di tutti gli uomini nella società capitalista – solitari, poveri, incerti, spaventati. L’isolamento è più intenso nella mente di Robinson che nella realtà. Perché ciò che emerge chiaramente, incontro dopo incontro, è che ogni volta che Robinson deve affrontare un’altra persona reagisce con paura e sospetto. Il suo isolamento, in breve, è né più né meno che l’alienazione dell’individualismo possessivo, ripetuto un milione di volte nella società capitalista.
Malinconia e neoliberismo
Come nei precedenti romanzi di Valenti, anche qui tornano temi come la working class e la solitudine. Quanto alla malinconia, invece, sarebbe meglio parlare della melancolia di classe teorizzata da Cynthia Cruz, il disagio vissuto dai membri della working class che nella società neoliberista si sentono senza radici, fantasmi che vagano in cerca di riconoscimento, ma costretti a vivere un isolamento che nella peggiore delle ipotesi è accentuato dall’uso di psicofarmaci.
Il protagonista di Valenti vive quanto teorizzato da Cynthia Cruz, in quanto anche lui si sente un fantasma all’interno della propria società, uno spettro che spesso trova rifugio nell’uso degli antidepressivi, che lo rendono sempre più isolato dagli altri che, incapaci di empatia, scambiano il suo stato malinconico in timidezza:
Guardavo al mondo che mi restituiva un’unica identità, l’identità della classe media. L’effetto era a tal punto mimetico che io stesso credevo (e l’ho creduto dall’infanzia alla tarda età matura) di essere parte dell’identità della classe media. Mi veniva rimandato il dogma che le classi non esistono, o, meglio, che non esistono più. E che quindi non esistono più nemmeno relazioni determinate da quella identità. Ero diventato un fantasma irriconoscibile tanto dalla classe media quanto dalla classe lavoratrice e mi accadeva di incontrare altri fantasmi come me, persone che vivevano nella vergogna e portavano il segreto del non appartenere a nessuna ragione e dunque di non averne alcuna.
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L’uomo senza nome non solo è più parte della sua classe sociale d’origine – la working class –, ma ora è fuori anche dalla classe media – rappresentata dalla famiglia adottiva. È costretto, inoltre, a un’esistenza precaria, fatta di lavori part-time, lavori in cui i lavoratori sono come un piccolo ingranaggio di una grande catena dello sfruttamento. L’uomo comincia anche a soffrire di agorafobia, e tutto attorno a lui si fa malato, fatiscente e soprattutto enorme. Il protagonista, dunque, si sente parte di un tutto catastrofico e alienante, che non solo comprende l’alienazione del lavoro, ma anche le calamità naturali come gli incendi della California o delle coste della Grecia:
Ero perfettamente consapevole di come tutto intorno a me generasse miseria. In un angolo di mondo, un gruppo di impiegati, alienati dal lavoro, si affaticava in grigi cubicoli, redigendo documenti per le multinazionali dell’elettronica, e, in un altro angolo di mondo, un esercito di lavoratori dissolveva per pochi soldi e tanta fatica vecchie componenti elettroniche per estrarne metallo, mentre il livello del mare aumentava e i boschi andavano a fuoco, mentre i corpi si ammalavano e non avevano possibilità di cura, mentre ogni due o tre anni il mercato collassava, cancellando il futuro che migliaia di lavoratori erano convinti di avere infine messo al sicuro. Non esiste un momento puntuale della catastrofe, la catastrofe non è in agguato, né è già avvenuta. Piuttosto, sta avvenendo.
La catastrofe che sta avvenendo
L’anonimo protagonista diventa, dunque, parte degli «sprofondati», coloro che vivono «nell’invisibilità dei morti». La catastrofe ha reso il mondo vuoto, sprofondato nel caos e costretto a ripetere in un loop infinito la propria autodistruzione. Che sia assuefatto dagli antidepressivi o sia diventato un vero e proprio morto che cammina – l’inizio del libro, dopotutto, recita «mi sono suicidato una sera di primavera», quasi fosse una cronaca di una morte annunciata –, l’uomo trova nel suo delirio l’altrove nel momento in cui constata la fine della realtà:
Ero morto e fluttuavo nello spazio infinito, nero e profondo, circondato dal pulviscolo di stelle. La coscienza si era rivelata ed ero felice, di una felicità che non aveva giustificazione. E al di sotto vedevo una enorme striscia dal grande colore e nell’avvicinarmi vedevo che si prolungava e vedevo che comprendeva l’intero pianeta nel quale ero vissuto.
L’uomo, allora, vede nel ritorno ai boschi dell’infanzia l’isola di Robinson Crusoe, dove il fiume diventa il mare in cui naufragare. Qui il fiume assume i connotati del Lete della mitologia classica, che permette al protagonista di dimenticarsi del mondo di prima, di tacere una realtà deprimente e a differenza di Crusoe di privarsi di ogni bene e ricchezza per poter rifondare il mondo secondo le proprie regole, che non contemplano l’accumulo di ricchezza e la depersonalizzazione alienante del neoliberismo.
La primavera della sesta estinzione
In Cronache della sesta estinzione (acquista), Stefano Valenti riesce sapientemente a rileggere il Robinson Crusoe di Daniel Defoe in chiave neoliberista. Il protagonista è un Crusoe molto simile al “castaway” Chuck Noland di Zemeckis, una vittima del neoliberismo più sfrenato, sradicato dalla working class e rifiutato dalla classe media, costretto a vivere da fantasma in mezzo ai fantasmi e che vede nell’estremo l’unica ancora di salvezza contro un’epoca che mette la prestazione al primo posto e che nega l’esistenza della persona e del suo disagio sociale.
La storia cominciava nel formarsi del pianeta Terra, quattro miliardi e seicento milioni di anni fa, era scritto, e nella storia della Terra vi erano state cinque estinzioni. Era l’attacco di una trama ma tralasciavo di percorrerla. Ero un naufrago senza approdi che muoveva in ampie rotazioni subito cancellate. Dipanavo un filo e lo imbrogliavo confondendo destra e sinistra. E d’altronde quella vita non opponeva altri impedimenti, niente che capitasse di traverso. Lo strumento era la bussola. Fu più tardi evidente come mancassero indicazioni diverse e come, con il salire delle ore, salissero le difficoltà (erano avvertimenti di trambusti vicini, forse di un vento provvisorio). E, al di sopra di quelle indicazioni, scivolavano nuove parole. Restavo a prua nella nave ricolma di voci. Le voci dicevano: I morti ci guardano.
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