Perché leggere «Lo Stradone» di Francesco Pecoraro

Lo scoramento dell'uomo postmoderno nella città di Dio

10 minuti di lettura

Lo scrittore e architetto romano Francesco Pecoraro, (La vita in tempo di pace (2013) e Lo Stradone (2019), editi da Ponte alle Grazie) è recentemente tornato in libreria con la raccolta di racconti Camere e stanze.

Tuttavia, vogliamo parlarvi de Lo Stradone pubblicato nel 2019 e finalista al Premio Selezione Campiello del medesimo anno: un’opera dominata da una forza centripeta, magnetica e magmatica.

«Lo Stradone»: il disorientamento dell’uomo postmoderno

Il protagonista del romanzo (acquista) è uno storico dell’arte nato negli anni quaranta del Novecento, un ex comunista che aveva tentato, senza successo, di entrare all’università. Dopo un impiego al Ministero dei lavori pubblici, ormai è in pensione: non è che un anziano disilluso, abitante del settimo piano di un palazzo postbellico. Da lì, osserva lo Stradone, rimuginando continuamente sulla città e la sua architettura. Da una parte ci sono continui echi alla sua storia personale, dall’altra alla storia del luogo in cui vive. Questo magma di pensieri porta ad un’osservazione cinica e disillusa del presente, raccontata spesso servendosi di un gergo architettonico.

Il protagonista appartiene a un Novecento nel quale non si riconosce. Osserva un’epoca e la Città di Dio, allegoria della Roma contemporanea, che ai suoi occhi sembra una lunga stagione di ristagno senza uscita. Il capitalismo è al collasso. Tutto intorno a lui, a partire dagli abitanti per arrivare all’architettura, urla un degrado asfittico. La fine non è solo quella quel consumismo, ma anche dell’utopia politica che aveva dato forma alla storia che lui si trova ad abitare.

Il protagonista e le sue idiosincrasie

Pecoraro, con uno stile potente e visionario, snocciola un concetto dopo l’altro, apparentemente senza un ordine cronologico degli avvenimenti. Ogni capitolo si rivela un insieme di parti inscindibili e necessarie a mostrare un universo frammentario e al contempo coeso. La sconnessione e le infiltrazioni di termini desueti e architettonici, forestierismi e neologismi, la mescolanza di registri, le liste, i segni. Inizialmente, tutti questi elementi trasmettono al lettore un senso di estraniamento, ma poi lo rapiscono, gettandolo in una lettura dallo stile sapientemente cesellato. Un universo lessicale e linguistico del tutto innovativo.

Difficile oggi per me, da questa postazione fissa sull’insensatezza dello Stradone, immaginare una città che cresce ordinatamente, secondo un’idea ancora antica, una geometria elementare ma inflessibile, isolato dopo isolato, con facciate uniformi nel non-linguaggio di un decoro neo-rinascimentale composto e minimale, con cornicioni e timpani, strade e piazze, giardini fontane monumenti e tutto ciò che serve: questa era la città che si costruiva allora.

Molteplici stili, molteplici sguardi

Così come la città è la somma dei nostri sguardi e dello sguardo del narratore, lo scrittore romano è in grado di utilizzare con un nitore esemplare le parole e l’espressività verbale per ricreare il senso di spaesamento e inadeguatezza dell’uomo postmoderno che passeggia per le vie della Città di Dio. Si ha l’impressione di cadere in un’entropia verbale, ma, in realtà, vi è una quasi totale assenza di supposizioni superflue. Avverbi e aggettivi sono ben assestati e ci conducono in un fluido narrativo unico nel suo genere. Uno stile verbale che rispecchia perfettamente la commistione dell’uomo spaesato con l’ambiente urbano, di cui egli è succube e, al contempo, artefice.

La città fisica è la conchiglia deforme che la città sociale, come un gigantesco mollusco semideficiente, costruisce per sé e così facendo si rappresenta. La città demmerda è un’incerta, auto-celebrante, messa in figura della gente demmerda che ci abita e che la costruisce. Niente di più, ma neanche niente di meno.

Di solito noi del ceto medio esteso non ci raccontiamo per davvero come siamo, credo ci interessi poco. Il grande ripieno sociale si trova noioso: benché sia attraversato da spietate e selvagge pulsioni, fa finta di no e, fatte salve le sitcom di ogni ordine e grado, cinematografiche e televisive, non si trova interessante se non per ridere. Siamo uomini e donne che vivono soprattutto di rapporti orizzontali, cioè interni allo strato sociale e alle capsule di appartenenza, senza un’esperienza diretta, se non fugace e marginale, della vita degli strati superiori e di quelli inferiori.

L’estenuante ricerca di un significato tattile

Pecoraro insiste sulla psicologia e sull’interpretazione dei propri sentimenti. Vi affianca un’estenuante ricerca di significato tattile, indagando le funzioni corporali, nonché la conoscenza del rapporto dell’uomo con il mondo delle cose. Le sue teorie non vengono solo enunciate, ma anche sviscerate attraverso diverse prospettive mediante una distorsione dello sguardo autoriale, sempre attento alle sensazioni fisiche, umane.

Ci ho messo tempo a capire che quell’andare a donne era la ricerca di una re-incarnazione del corpo di Clara. Non l’ho mai trovata. Io e lei fummo la prova che esiste una frattura mente-corpo: due menti possono divaricarsi in modo irreversibile restando i corpi avvinti l’uno all’altro come fossero soli al mondo. Questo ci era accaduto, o almeno era accaduto a me.

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Essere uomo nella città

Nelle opere di Pecoraro i termini architettonici sono funzionali non solo a descrivere in modo fenomenologico gli oggetti e a dare un volto urbanistico alla Città di Dio, ma anche a descrivere il rapporto socio-antropologico che l’uomo ha intessuto negli anni con l’ambiente. Ecco dunque che il lessico architettonico diventa una metafora per descrivere le sensazioni del protagonista, la cui vita è inscindibilmente legata al suo essere nella città, al suo prendere parte al contesto e alla storia urbana. Inseriti nel contesto narrativo e accostati a un lessico non tecnicistico, il loro contrasto nella narrazione assume un riverbero metaforico: una similitudine per descrivere l’angoscia del protagonista e il suo ossessivo scrutare la città.

Da fornaciai, cioè da gente che conosceva il lavoro nel suo aspetto più brutale, cioè di quasi pura fatica—il «quasi» tiene conto dell’affermazione di Gramsci sulla presenza di un quantum sapienziale anche nel lavoro più semplice e duro—, si ritrovarono a fare gli operai edili, talvolta degradati a manovali, ma anche a lavorare nelle officine meccaniche, a fare gli autisti.

Il nichilismo linguistico

Picasso diceva che per un artista è necessario imparare le regole in modo da poterle poi infrangere.

La scrittura di Pecoraro si muove fluida e leggera dove non inceppa nei vari ponti di passaggio che crea, tutti quei segni che sembrano segmentare il testo, ma in realtà altro non sono se non cardini essenziali per gettare le basi di un nuovo traguardo: il nichilismo linguistico. La complessità e la densità del lessico rapiscono in una lettura trascinante. La grande precisione dei termini inseriti nel tessuto narrativo contribuisce a creare immagini evocative e potenti nella mente del lettore.

Ma questo per Pecoraro non è sufficiente: egli annienta le frasi troppo composte, la struttura sintattica lineare e i segni di interpunzione classica; esce dall’ordine unicamente cronologico e dalla voce canonica del narratore, chiusa solitamente entro rigidi schemi di apparizione e scomparsa nei confronti del lettore. E l’annichilimento di tutte queste varianti deflagra nel foglio con una potenza stilistica che è del tutto nuova e avvincente.

Lo stile che utilizza è il modo di certificare il proprio sguardo, renderci partecipi insieme a lui di questo annientamento visivo.

Pecoraro scardina dunque la narrazione classica e il suo linguaggio, generando degli interrogativi sullo stile che solo grandi autori sono stati in grado di porci.

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Ester Franzin

Lettrice incallita, amante della letteratura e della lingua italiana in tutte le sue declinazioni. Classe 1989, è nata in un paesino della Pianura Padana. Si è laureata in Storia dell’Arte a Venezia e poi si è trasferita a Rimini, nel cuore della Romagna. Ha frequentato la scuola Holden di Torino e pubblicato il suo primo romanzo «Il bagno di mezzanotte».

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