Taras Shevchenko: Ucraina, poesia, libertà

Desiderava la libertà per il suo Paese: il poeta di ieri nell’Ucraina di oggi

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Ucraina, poesia, libertà: Taras Shevchenko oggi

«Seppellitemi e ribellatevi. Spezzate le catene» scriveva Taras Shevchenko in Testamento o, per usare la sua lingua, Zapovit. Cercava la libertà, la anelava con tutto se stesso. Ma non per sé, per la sua patria. Per l’Ucraina, la stessa che da mesi è sofferente, teatro di guerra e orrori a due passi da casa nostra. Quello che Shevchenko lancia al proprio popolo è un appello, una promessa di una nazione libera. Il patriottismo è insito nell’animo del giovane poeta che ha trasformato la propria terra natale in versi, più e più volte. In Ucraina scriveva:

Il nostro vecchio Dniprò 

steso fra le colline, 

sembra un bambino nella cuna.

Shevchenko è passato alla storia come poeta popolare, nel senso di nazionale, patriottico. Le sue opere raccontano dei rapporti complessi tra Ucraina e Russia, dell’indebolimento della prima come conseguenza dell’influenza dell’Impero Russo. Leggendolo, è inevitabile sentir risuonare nella mente le strofe di un altro patriota: «O mia patria, sì bella e perduta! O membranza, sì cara e fatal!». In fondo, Va Pensiero è una preghiera di sofferenti, che sperano di rivedere la propria terra e  di ascoltare di nuovo il canto degli aedi perché non si può scrivere poesia e intonare canti quando si ha il cuore oppresso dallo straniero. Eppure, Shevchenko lo fa, non smettendo mai di credere nel progetto di rinascita del suo Paese, per un’Ucraina nuova sia dal punto di vista culturale che politico.

Fonte: Taras Shevchenko, Public domain, via Wikimedia Commons

La vita

Taras Shevchenko è un esempio di riscatto sociale. Nato a Morynci  – un piccolo villaggio vicino a Kiev –  nel 1814 come servo della gleba, cambiò la propria posizione grazie alla messa all’asta di un suo dipinto, quando aveva solo 24 anni. Shevchenko, infatti, fin dalla tenera età era solito trascorrere il suo tempo disegnando mondi sui fogli. Un precettore del villaggio gli insegnò a scrivere. Rimasto orfano a 11 anni, seguì il suo signore a San Pietroburgo, dove venne accettato all’Accademia di Belle Arti. Nel 1840, a soli 26 anni, pubblicò la sua prima e più famosa raccolta poetica, Kobzar. Cinque anni dopo scrisse Zapovit, il suo testamento poetico.

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Era il 1845, un anno che avrebbe segnato la vita del giovane artista. Durante un viaggio in Ucraina incontrò alcuni membri della Confraternita dei santi Cirillo e Metodio, una società segreta che supportava le riforme politiche nell’Impero Russo. La Confraternita venne scoperta, diverse persone arrestate e Shevchenko con loro. Lo attese un arruolamento forzato nell’esercito per dieci anni come soldato semplice sugli Urali e sul Mar Caspio. Anni duri: non poteva né scrivere né dipingere.

Nel 1857 riceve la grazia imperiale e finalmente, nel 1858, può tornare a San Pietroburgo. Un anno dopo un permesso ufficiale gli permette di tornare nella sua Ucraina dove, tuttavia, non gli permettono di vivere. Il 10 marzo 1861 si spense, lasciando al mondo le proprie poesie. Sepolto in Russia, in Zapovit aveva espresso chiaramente il proprio desiderio:

Quando morrò seppellitemi

Sull’alta collina

Nella nostra steppa

Della bella Ucraina

Che si vedano i campi

E il Dniepr stizzito.

Così, i suoi amici trasferirono il suo feretro sulla Černecha Hora, la Collina del Monaco, vicina al Dniepr.

L’incantesimo sulle barricate

21 marzo 2021, le studentesse di un’Università ucraina girano un video in cui, una alla volta, recitano strofe delle poesie di Shevchenko. La poesia allora diventa una formula magica e ripeterla diventa necessario, soprattutto in tempi bellici. «Che l’incantesimo di Shevchenko raggiunga ogni angolo di mondo» dicono le studentesse alla fine del video. Gli occhi tristi, svuotati dalla guerra e dentro di sé la spinta verso la libertà, che passa anche dalla poesia.

«Do you hear the people sing? Singing  a song of angry men?» cantavano i rivoluzionari francesi de I Miserabili, sulle barricate. In tempi di rivolte, di guerre, di devastazione,  si è tornati ai versi, pronunciati in soffi prima di dormire, come quelli di Ungaretti, o urlati brandendo le bandiere come il Marius narrato da Victor Hugo. Come le strofe di Shevchenko, che duecento anni dopo non ha smesso di essere attuale, soprattutto dopo l’attacco russo all’Ucraina. E come può essere altrimenti definita la poesia se non magia, visto che è stata ed è un modo per sopravvivere alle atrocità?

Fonte immagine copertina: ЯдвигаВереск, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, attraverso Wikimedia Commons

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Maria Ducoli

22 anni, studio linguistica a Venezia, leggo, scrivo e cerco di sopravvivere alla giornata.

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