I capolavori fondativi della letteratura americana ci sono familiari anche in traduzione italiana: ci sembrerebbe allarmante se in libreria non trovassimo La lettera scarlatta o Walden nella nostra lingua. Forse, però, non siamo abituati a pensare che traduzioni di grandi opere italiane circolino all’estero. Invece esistono, e alcune vengono anche aggiornate. Una di queste opere è I promessi sposi che esce per la casa editrice Modern Library, con il classico titolo The Betrothed.
L’autore è Michael Moore, italianista, per anni interprete alle Nazioni Unite, che si è occupato in passato anche di testi italiani del Novecento, come Agostino di Moravia e I sommersi e i salvati di Primo Levi. Il lavoro di traduzione l’ha tenuto impegnato dieci anni, durante i quali si è periodicamente confrontato con Jhumpa Lahiri, autrice e sua collega a Princeton, che infatti firma la prefazione a The Betrothed.
Una traduzione “in americano”
I due condividono la passione per l’italiano: per la sua letteratura, certo, ma ancor di più per la lingua. E il lavoro sulla lingua, in questa traduzione, merita una giusta spiegazione e contestualizzazione. In primis, Moore ci tiene a sottolineare che si tratta di una traduzione “in americano”, non in un generico inglese: per motivi di copyright, per quando uscirà su suolo britannico, ma anche per ragioni di colore.
Il lessico americano è infatti abbastanza flessibile e vivace da prestarsi – se non delle traduzioni letterali, che creerebbero un po’ di imbarazzo in certi casi – a dei calchi o delle onomatopee in grado di restituire bene la particolarità dei nomi manzoniani: Azzeccagarbugli, per esempio, diventa “Argle-Bargle”, mentre Sfregiato, uno dei bravi di Don Rodrigo, diventa “Scarface”.
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Operazioni di adattamento alla contemporaneità per I promessi sposi
Inoltre, rispetto alle traduzioni novecentesche de I promessi sposi – come quella del 1924 di Daniel Connor o quella del 1951 di Archibald Colquhoum – il lavoro di Moore è più rispettoso del ritmo del testo manzoniano che della sua sintassi. Come ha confessato a Gianni Riotta su Repubblica, il suo obiettivo è stato «non perdere la musicalità di Manzoni, aggiornandola tuttavia ai tempi mentali contemporanei».
Questo, secondo Riotta, si traduce in uno stravolgimento della sintassi manzoniana: «Moore ignora il punto e virgola, spezzando i paragrafi più lunghi dell’originale in frasi concise», un modo per rendere anche più accessibile il testo ai lettori contemporanei.
Un’opera che nasce come traduzione
Operazione criticabile? Attentato alla purezza del dettato manzoniano? Sarebbe facile aggredire con queste accuse una traduzione – una qualsiasi traduzione, in qualsiasi lingua – di un caposaldo monumentale della letteratura italiana quale I promessi sposi; ma la natura del romanzo stesso, secondo Jhumpa Lahiri, si presta a una tale operazione linguistica.
L’autrice ricorda infatti, nella prefazione al testo, che I promessi sposi contengono già in nuce un lavoro di traduzione, di mano dello stesso Manzoni: il libro è scritto in una lingua composita che accoglie il milanese urbano, i dialetti delle campagne circostanti, parlati dal popolo, il latino usato dai potenti. E, in aggiunta a tutto ciò, la cosiddetta “sciacquatura dei panni in Arno” altro non è che una traduzione del testo, seppur a livello intra-nazionale.
Sarà interessante vedere come il libro sarà ricevuto dal pubblico americano. In ogni caso, critiche all’adattamento del testo a parte, sarà un modo per riavvicinare una fetta di lettori internazionali a un testo che può fare paura, a causa della canonizzazione che ha vissuto in Italia.
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