Alla scrittura si arriva per strappi, sembra dire Aixa de la Cruz nelle prime, folgoranti pagine di Transito, opera di non facile catalogazione, edita lo scorso aprile da Giulio Perrone. Un’autofiction rinnegata («come forma di scrittura la usano solamente i tipi noiosi e tronfi»), la cui struttura è via via sottoposta alle costrizioni imposte dal saggio narrativo, dal romanzo di formazione, dall’apologo politico.
Non si tratta neanche di un memoir, sebbene l’autrice consegni parti di sé e della sua (breve) vita, appena trent’anni di sofferenze e sbagli, di salti in avanti e deviazioni dalla norma. È difficile, in effetti, trovare una definizione per questo testo anfibio. La sua forma espressiva disegna un continuum dialettico tra fiction e non-fiction, nel frequente tentativo di costruire una geografia personale fondata su un duro apprendistato di vita e pratica politica.
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«Transito»: dall’io al noi
La forte incidenza del dato autobiografico appare nella scrittura di de la Cruz sempre finalizzata alla riflessione. Questa è percepibile come stimolo a commenti allargati alla condizione umana e ai suoi guasti, alle sue trasformazioni. Il personale che si fa collettivo, dunque politico. Non a caso Transito è un’opera dichiaratamente femminista, in cui convergono l’eredità della differenza e le istanze del movimento MeToo, l’indagine sul corpo e sulla violenza, tanto stratificata da nutrirsi di immagini subite e rielaborate, dal tentativo di stupro a Granada alle torture di Abu Ghraib.
L’obiettivo del recupero anamnico spesso si esplica in uno scarico di coscienza nei confronti di antichi retaggi, dove l’intento catartico sottende un fine conoscitivo. Ne è esempio la rievocazione della violenza scampata.
«Il giorno dopo raccontai per filo e per segno alle mie amiche la mia disavventura, senza omettere alcun dettaglio se non quello dell’imprigionamento nel portone. Ciò che ottenni in cambio fu una lista di aggressioni sessuali che mi obbligavano a percepire la mia esperienza come un rito di iniziazione nell’universo femminile. Le enumeravano senza rabbia, come si ricorda una malattia o il giorno in cui hai avuto il ciclo per la prima volta, e sentii che insinuavano che io ormai ero donna proprio perché mi era accaduto quello […]. Ascoltai i loro aneddoti con stupore. Quella non poteva essere la norma. In Messico forse, ma non in Spagna».
Il peso delle immagini in «Transito»
Ogni luogo geografico è per de la Cruz un brandello di esistenze sovrapposte, in cui i fatti personali si saldano a certe letture (Judith Butler, Donna Haraway), alla musica ascoltata (Leonard Cohen, Bruce Springsteen), agli eventi drammatici della storia recente. Gli stupri di gruppo e i femminicidi in Messico («millenovecentoottantacinque casi registrati nel 2016 e trecentoventinove da gennaio a marzo di quest’anno [2017]») aprono uno spaccato su un fronte transculturale, che libera l’autrice – ancora tramite la memoria – da preconcetti ideologici e rassicuranti. Dalle «aspettative sull’America Latina di un europeo» che guarda con lenti fallate la radice dello scandalo.
I social network hanno un grande peso nel libro. Sono il parametro di misura della notiziabilità e della narrazione degli eventi, di come la materia possa dilatarsi fino a perdere peso, a slabbrare il confine tra verità e finzione, tra sofferenza e assuefazione all’orrore. Il lungo discorso sulle immagini è significativo, e risente della lezione di Susan Sontag contenuta in Davanti al dolore degli altri (2003, ora ripubblicato da nottetempo). La rappresentazione delle torture di Abu Grahib dovrebbe toccare, scuotere, ma iscritta com’è nel linguaggio della comunicazione giunge anestetizzata, capace di turbare solo per la presenza di donne, ancora una volta soggetti anomali, culturalmente avversi alla pratica della violenza agita.
Essere donna secondo de la Cruz
Ma de la Cruz sa che «non esiste un determinismo biologico, “donna” è una costruzione culturale, un club che distingue ed esclude in virtù di norme arbitrarie». E lei non vuole sentirsi «integrata», entrare in categorie predisposte da altri. Lo svela in frasi come queste:
«Nessuno per il mero fatto di avere la fica può parlare in mio nome; io non ho firmato la mia adesione, mi hanno iscritto altri».
«Non è così, mamma. Io non volevo lottare per le mie sorelle. Io volevo smettere di essere una sorella. Come Virginie Despentes, pensavo che “tutte le cose divertenti sono virili” e “tutto ciò che non lascia traccia è femmina”, e odiavo che mi incasellassero nel secondo gruppo».
Il Transito dell’esistenza
La pratica della rimemorazione soggettiva si articola allora per deviazioni, attraverso tagli che mostrano il transito (acquista) della sua esistenza, dall’inganno sul rapporto con la madre (che Aixa odia per un tormento indotto, del tutto arbitrario) all’attrazione per le altre ragazze, inscritta, quasi naturalmente, in un paradigma patriarcale. Ancora qualche stralcio:
«Sei così carina che domani racconterò alle mie amiche che ho conosciuto un’attrice o roba simile e sicuro che ci credono […]. Le mordevo quel labbro pneumatico senza che opponesse resistenza e tutto era di nuovo mistico e perfetto. “Ho bisogno di spogliarti adesso”».
«Scambierei la mia adolescenza a competere con le belle ragazze per una adolescenza di belle ragazze con cui potermi toccare. Voglio tornare indietro e scoparmi tutte quante le mie compagne di classe che mi hanno coperto di insulti a scuola».
Scrittura e corpo in «Transito»
È un percorso di scarti quello di Aixa de la Cruz, una lunga strada verso la consapevolezza di sé e del proprio corpo. Dei propri limiti, delle sue contraddizioni. E la scrittura è un mezzo, o meglio un tentativo. Per “civilizzare” il dolore, e capire – attraverso un «atto immaginativo» – la metamorfosi della nostra stessa esistenza.
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