17.53
Un’estate sottile e non ti svegli
ancora nel rosa del tuo frinire
chiuso dalle grandi ciglia
rumore di ozio puro
un ricordo sul tavolo dei giochi
che sembra finire ma non per sempre
8.41
Se non ho imparato a bussare
di certo ora non entro
resta con me qui dove hanno lasciato
il silenzio tutto fuori ramificato
trafitti come siamo anche insieme
dalle cerbottane freudiane
dai saldi e da tutto quello
che chiamiamo
comunicazione
14.37
Dai le manate quando ti arrabbi
come l’onda microscopica sembra l’enorme
abituato a confrontare la pecora e l’agnello
da grande se non sono un padre
la briciola trascinata dall’insetto vorace
sarai un grave pericolo come avvicinarsi
Sottotesti: un’intervista a Giovanni Peli
Con questi tre inediti è come se Giovanni Peli continuasse con la sua trilogia poetica, cominciata con Onore ai vivi (2018), proseguita con Incontro al tuono vicino (2019) e ultimata con il prezioso La vita immaginata (2020). Peli affronta ancora una volta gli affetti familiari intrisi di una calibrata tenerezza.
Scritti sul finire dell’estate, gli inediti qui proposti hanno come titolo la semplice ora in cui sono stati scritti. Tuttavia, nessun giorno compare; poesie dunque ispirate dall’alternarsi degli astri, ma svincolate dal volgere dei calendari. Solo la sensazione dell’«estate sottile», pronta al suo inesorabile cambiamento. Dettata dal riposo la spossatezza si accompagnata alla quiete e plasma un dolce far nulla generatore.
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Speculazioni improvvisate, feuilleton tanto poetici quanto atipici. La sottile ironia di 8.41, ad esempio, ragiona sull’improvviso «silenzio tutto fuori ramificato» in contrasto con la comunicazione dei mass media a cui siamo costantemente sottoposti. I versi del poeta tratteggiano panorami, scandendo frasi scandagliate nell’etere secondo una sorta di codice Morse. La parte finale di 14:37 gioca con la scansione poetica, riproducendo una fatalista considerazione nel rapporto padre-figlio.
Lorenzo Gafforini: Come nascono questi tre inediti? Come anticipato, penso ci sia una forte continuità con le tue raccolte precedenti.
Giovanni Peli: Non scrivevo versi da quasi un anno, poi ho avuto una specie di proposta editoriale e ho provato a elaborare una nuova idea, che raccolgo sotto il “titolo” di Contemporanea, un titolo assai pretenzioso direi. La volontà era quella di fotografare momenti casuali della mia giornata, dopo gli avvenimenti descritti, come giustamente dici tu, nei miei libri precedenti: come è la mia realtà dopo la nascita di mio figlio (Onore ai vivi), il perturbante nella quotidianità (Incontro al tuono vicino), e il trauma dell’arrivo del Covid (La vita immaginata)?
È una lunga estate che più di tutte le altre si vorrebbe non finisse, un’estate di tregua in cui si afferra nuova e consapevole e responsabile libertà. È anche un titolo ironico, perché ho sia come lettore sia come editore sia come autore una sorta di rigetto per la poesia contemporanea, un genere letterario che gioca a essere sempre innovativo ma che in realtà vive su cliché e “revival”.
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L.G.: Quello che maggiormente apprezzo dei tuoi testi – oltre lo stile – è la capacità di creare una serie di sottotesti. Reputo che una buona poesia non si possa spiegare in senso univoco. Senza alimentare voli pindarici di certa critica, vorrei sapere quante interpretazioni ha per te un componimento come 14.37.
G.P.: Il riferimento è il celebre paragone delle Bucoliche di Virgilio, quando si dice che Roma per la sua grandezza non può affatto essere paragonata a nessun’altra città. Così certe reazioni che ha un bambino (ma non solo) sono eccessive e “anormali” se badiamo alla causa che le ha scatenate, così il mare, che non è mai fermo, produce onde di ogni grandezza, così forse ci sono ruoli ben definiti dalla tradizione che non sempre sono “naturali”, così questi ruoli ci mettono nella condizione di comunicare in un modo ben preciso che, sempre, crea collisioni: vivere è una serie di collisioni.
L.G.: Eppure sembrano poesie – correggimi se sbaglio – abbozzate sulle note del telefono. Questa fine dell’estate è come se svelasse epifanie allo scoccare di ogni ora. In questo periodo cosa ti ispira maggiormente? Sei un grande lettore, eppure nelle ultime tue raccolte si nota anche una preponderante presenza dell’ambiente familiare.
G.P.: Sì, la prima versione di ciascuna di queste tre poesie è stata scritta sul telefono. Devo dire che me lo sono imposto, come esperimento. Poi tutte e tre sono state riviste su pc, in un caso anche in modo sostanziale. Sì, leggo molto. Le ultime letture sono state il romanziere Philip Roth (e qui di vicende familiari ce ne sono a iosa!) e il filosofo François Jullien, un vecchio amore che è tornato con prepotenza. Interessantissimi anche i saggi di Matteo Meschiari, penso che siano imprescindibili per chi fa letteratura oggi. Leggo anche molti fumetti e poesia del Novecento.
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L.G.: Non manca però anche una critica sociale, come emerge soprattutto in 8.41. Uno spirito che, poi, è stato ampliamente espresso in La vita immaginata e nel tuo romanzo distopico Sulla soglia (scritto con Stefano Tevini). Penso che ancora oggi sia importante ribellarsi, anche grazie alle manifestazioni artistiche. In un certo senso, la tua opera si propone anche di scuotere determinati concetti.
G.P.: Vis polemica e spirito critico mi hanno sempre accompagnato, diciamo pure che non sono quasi mai completamente d’accordo con nessuno. Penso ancora che la cultura sia sempre contro qualcosa. Sono frasi sentenziose e comunque ironiche, le mie. Ma devo dire che dalle prime righe di una poesia o di un testo narrativo capisco se c’è questa volontà di opposizione che mi invoglia a continuare a leggere oppure no.
Molti scrivono per entrare nel magico mondo della letteratura, io no. Ma parlo soprattutto da lettore. Io leggo perché è essenziale leggere, perché la letteratura è indispensabile per vivere. Molti libri che vengono pubblicati oggi invece sono perdibilissimi. Sono scritti non tanto per intrattenere il pubblico, ma perché lo scrittore si possa auto-intrattenere; sembra quasi che lo scrittore abbia scritto tanto per fare… soldi? per essere fotografato col suo libro in mano? Non lo so. Non voglio stare al passo con questi tempi.
L.G.: Sorprende poi come tu riesca ad alternare vari registri linguistici e tematici. Soprattutto in 14.37 ho notato una “dolce crudeltà”. In molte tue poesie emerge il senso del tempo e del precario. Un esempio è rintracciabile nella presenza delle formiche. Si tratta di insetti che più di una volta ho visto comparire nei tuoi scritti. Sicuramente sono simbolo di deperimento, ma anche emblemi di tenacia e resistenza. Cosa ne pensi?
G.P.: Sì, gli insetti mi affascinano moltissimo. Hai detto bene, qualunque cosa noi facciamo: litigare, ridere, vincere il Covid, lavare i piatti, innamorarci, far scadere lo yogurt o tifare la nazionale, gli insetti continuano con coraggio a fare quello che devono fare, rischiando ogni giorno di morire calpestati da noi. Siamo simili per certi aspetti agli insetti, anche noi riusciamo a portare a termine grandi opere grazie alla capacità organizzativa. Ma quanta nobiltà hanno loro! Quindi è l’aspetto della tenacia e della resistenza che mi affascina. Certo in primo luogo la formica è quella di Leopardi… e anzi, prima ancora, forse, come dici tu, c’è una punta di gusto dell’orrido…
L.G.: Abbiamo cercato, dunque, di analizzare i vari sottotesti presenti in questi tre inediti. E ora? Dopo la virata alla narrativa di Sulla soglia, intendi continuare con la scrittura di romanzi o racconti?
G.P.: Voglio assolutamente raccontare storie. Non so in che modo, è probabile che ricorrerò ancora alla poesia per farlo, ma di certo, come ho già detto ben prima di Sulla soglia (introduzione del testo dialettale Brèsa desquarciàda, 2016), tutto ciò che ha senso è racchiuso nel raccontarci una storia. Il mio prossimo libro sarà un racconto molto strano, in bilico tra più generi, ma di fatto è un racconto sci-fi (genere di cui mi nutro soprattutto attraverso serie tv e film, perché molto spesso la letteratura di genere è scritta in uno stile che mi annoia. Eppure quanta potenza immaginativa nei creatori di quelle storie!).
Abbiamo bisogno di nuovi scenari che parlino a noi, nel 2021. Dobbiamo, come dice Meschiari, raccontare come si può sopravvivere a un mondo che è già sconvolto dal cambiamento climatico, con tutte le ramificazioni di questo problema epocale, non ultima la pandemia di Covid. Penso a storie nuove senza ambienti e personaggi prefabbricati, usati da secoli; senza buoni e cattivi, senza troppe divisioni tra animale e umano, tra vegetale e animale… Penso che comunque questa volontà narrativa sia stata spesso “invocata” nei miei libri precedenti e in tante canzoni, anche se i miei libri di narrativa propriamente detta sono solo Il candore (2016) e appunto Sulla soglia. Ma, vorrei che si capisca, rifuggo categoricamente il «propriamente detto».
L’autore
Scrittore e musicista, Giovanni Peli è nato a Brescia nel 1978. Nel 2003 si laurea con una tesi su La ragazza Carla di Elio Pagliarani. La sua produzione spazia dalla poesia alla narrativa, dalla canzone al teatro, alla letteratura per l’infanzia. Bibliotecario, ha fondato Lamantica Edizioni con la traduttrice Federica Cremaschi. Ricordiamo le opere più recenti: la raccolta di poesie e prose La vita immaginata, il reading musicale Il tessitore (con il jazzista Emanuele Maniscalco), il romanzo distopico Sulla soglia (con lo scrittore Stefano Tevini), la raccolta di poesie Incontro al tuono vicino e il disco cantautorale Sette giorni.
Illustrazioni di Giorgia Minessi
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