Tristano Muore è una delle ultime opere del celebre scrittore pisano Antonio Tabucchi. Feltrinelli pubblica quest’opera nel 2004 e il libro gode di un considerevole successo appena uscito, aiutato anche dalla già grande notorietà del suo autore. Oggi, però, viene spesso dimenticato, relegato all’ombra del più celebre Sostiene Pereira, pubblicato nel 1994. Eppure in questo romanzo, fatto di specchi e riflessi, di frammenti e di cocci, c’è una volontà quasi testamentaria, un ritorno alle origini per ricercare il significato ultimo di “fine”.
Gli ultimi giorni di Tristano, eroe della Resistenza greca
A un capezzale c’è un corpo corroso dall’età e dalla malattia, la voce di un vecchio indurito dai ricordi e dai rimpianti. Mentre detta la sua vita a uno scrittore che è nel fiore degli anni e del proprio talento, Tristano racconta gli sprazzi di una vita vissuta. Questa è sempre divisa tra i lamenti della guerra e le ascese dell’amore.
Le vittorie nel campo da battaglia lasciano spazio all’amara consapevolezza che gli ideali per cui lui e i compagni si sono spesso battuti sono stati traditi. La guerra ha lasciato segni indelebili che nemmeno l’arrivo della morte riesce a scalfire. Quale il senso dunque della parola eroismo?
La vita non è in ordine alfabetico come credete voi. Appare… un po’ qua e un po’ là, come meglio crede, sono briciole, il problema è raccoglierle dopo, è un mucchietto di sabbia, e qual è il granello che sostiene l’altro?
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L’amore taciuto
Chiamato Clark dagli amici, per i capelli e il fascino simile a Clark Gable, s’innamora di Daphne, che lui chiamava Mavri Elià per i suoi grandi occhi simili a due olive nere. Le frasi d’amore che le dedica sono delle più poetiche, ma prendono spazi e silenzi nel testo. Queste compaiono e scompaiono, quasi come se l’autore non ne parlasse volentieri, ma volesse trattenere nell’intimità i tempi felici che furono.
Ti ho cercato, amore mio, in ogni atomo di te che è disperso nell’universo. Ne ho raccolti quanti mi era possibile, nella terra, nell’aria, nel mare, negli sguardi e nei gesti degli uomini.
Parole e silenzi
In Tristano muore (acquista), il protagonista preferisce parlarci di Marilyn, anche lei impegnata nella Resistenza — talvolta chiamata Rosamunda, come un pezzo di Schubert. A lei lo lega soprattutto una grande attrazione carnale; il loro rapporto è fatto di omissioni e tradimenti, di lasciarsi e riprendersi.
Uno dei protagonisti diventa così il non-detto, o il taciuto, in una struttura che non è mai lineare. Si avvale del monologo — che talvolta diventa soliloquio disperato, richiamo d’aiuto — per invertire i tempi della storia, creare connessioni e disconnessioni. E man mano che si avanza, il racconto si fa più annebbiato, più scosceso: anche se verso la fine si intravedono vette di incredibile bellezza.
Dimentichiamo che il tempo esiste e non contiamo i giorni della vita, non bisogna farlo quando siamo stati così stolti da non contarli prima, Mavri, è come se io avessi sognato e ora mi svegliassi e mi chiedessi dov’ero, ero io, ero lo stesso e perché?
Il monologo che lascia spazio ai ricordi
Con una voce sempre più fievole e più roca, quasi un sussurro, Tristano continua a parlare con rabbia e rigetto di un mondo che non rispecchia i suoi valori. Le sue riflessioni sulla storia, sulla politica, sul sistema, diventano demiurgiche e assolute, ancora attualissime. Attraverso un dialogo, quasi una confessione tra vecchi amici, i ricordi e i rimpianti, fantasmi che aleggiano sopra il corpo quasi esanime di Tristano, accentuano i suoi rammarichi, come quello di non aver avuto figli. «Ciascuno è solo se stesso, senza la trasmissione di carne futura, e io soprattutto senza qualcuno che raccoglierà la mia angoscia.».
La storia è come l’amore, è una musica, e tu sei il musicista, e mentre la suoni sei di un’abilità enorme, un interprete che soffia a pieni polmoni nella sua trombetta o sfrega con rapimento il suo archetto sulle corde… magnifico, un’esecuzione perfetta, applausi. Ma non conosci lo spartito. Quello lo capisci dopo, molto più tardi, ma ormai la musica è svanita.
Alla fine, corroso dalla paura (non una paura sottile, ma angosciosa, beffarda di fronte alla morte), Tristano rigetta anche la scrittura quale unico strumento che può fossilizzare dei momenti, perché «la vita non si racconta, la vita si vive, e mentre la vivi è già persa, è scappata.»
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