Una città annientata in meno di dieci secondi, talmente tanti morti da non riuscire neanche a compiangerli. E un ticchettio che da quel 6 agosto del 1945 non ci ha più lasciati. Davvero «non abbiamo paura della bomba», come si cantava negli anni Sessanta? Se con la guerra in corso i massimi livelli del potere russo ci riportano a minacce e orrori di un conflitto atomico in Europa, L’ultima vittima di Hiroshima (acquista) ci aiuta oggi a confrontarci con la catastrofe che abbiamo di nuovo di fronte.
«Tu non ha visto niente a Hiroshima…»
«Tu non ha visto niente a Hiroshima…», continua a ripetere l’architetto giapponese interpretato da Eiji Okada all’inizio dello straziante Hiroshima mon amour (1959). Oltre settant’anni dopo, abbiamo parole migliori di queste per dire quel che è stato? Per rappresentare l’abisso di quei nove secondi? Per renderci concepibile il giorno in cui i giornali titolarono a tutta pagina: «La bomba atomica colpisce – una città è svanita»?
“Vanished”, titolarono, a significare: “annientata”, “polverizzata”, “ridotta in cenere”. Nulla, infatti, aveva mai raggiunto quella potenza distruttrice, quella velocità di esecuzione. «Sono diventato Morte, il distruttore di mondi», si racconta esclamò il creatore Robert Oppenheimer di fronte all’esplosione riuscita, a una tecnica ormai fuori controllo. Il sopralluogo statunitense sugli effetti della bomba a Nagasaki riscontrò che su un’area di oltre 100 km2 fu distrutto quasi il 90% degli edifici.
Hiroshima stato del mondo
Case, palazzi, abitanti: tutto tremendamente, immediatamente scomparso. Ma d’altronde – mettono in guardia storici pacifisti come Lisa Clark – è proprio per distruggere le città che le armi nucleari sono state progettate e poi utilizzate. Orrendo, dunque, fin dall’origine lo scopo di questi ordigni, spaventoso lo scenario di un mondo che non le ha ancora bandite. Oggi abbiamo armi ben più potenti di quelle che colpirono il Giappone. Le stesse che, se utilizzate, porterebbero – secondo una simulazione riportata dal New York Times – a 90 milioni di morti nel giro di poche ore.
La Federation of American Scientists ne ha contate nel mondo poco meno di 13mila, la quasi totalità ben spartita tra Stati Uniti e Russia, che vanta il triste primato di circa 6000 ordigni nucleari. «Non sono le armi atomiche a presentarsi, fra le altre cose, sulla scena politica, ma sono gli avvenimenti politici a svolgersi all’interno della situazione atomica», si legge nei Comandamenti dell’era atomica di Günther Anders. “Hiroshima stato del mondo”.
La coscienza di Hiroshima brucia ancora
Come gestire quest’orrore, come guardare fin in fondo quest’abisso? L’equipaggio responsabile del bombardamento di Hiroshima, con un evidente meccanismo di “rimozione”, non provò senso di colpa e sostenne addirittura che avrebbe ripetuto il gesto “eroico”. Ci fu però chi tra loro ebbe la forza di dire “no”: Claude Eatherly (1918-1978). Maggiore dell’aeronautica militare statunitense, tentò, con rapine e atti antisociali, di essere in ogni modo punito per il suo crimine, l’aver dato il “via” al bombardamento.
Finito rinchiuso in manicomio, a contattarlo fu il filosofo Günther Anders che gli scrisse una lunga lettera intorno al quindicesimo anniversario dell’evento, non a caso lo stesso periodo in cui uscì nelle sale il film che provò ad elaborarlo artisticamente. Il carteggio si trasformò poi velocemente in un libro in Germania, tradotto l’anno seguente in inglese con il potente titolo Burning coscience e in Italia da Einaudi con quello di La coscienza al bando. Negli ultimi anni l’editore Mimesis lo ha meritoriamente ristampato in una nuova edizione a cura di Micaela Latini.
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Anders ed Eatherly uniti contro l’apocalisse nucleare
Ma quale fu la colpa del “pilota di Hiroshima?” Nonostante avesse ricevuto, con gli ordini, indicazione false sull’obiettivo e l’orrenda potenza atomica gli fosse ancora sconosciuta, ritenne che la sua azione fosse moralmente riprovevole e la sua gloria intollerabile. «Credo, anzi, che ci avviciniamo rapidamente a una situazione in cui saremo costretti a riesaminare la nostra disposizione a lasciare la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni a istituzioni sociali (come partiti politici, sindacati, Chiesa o Stato)», scrisse in risposta alla prima lettera mandatagli da Anders.
Per circa due anni, lettera dopo lettera, attesa dopo attesa, seguiamo il nascere di un’amicizia forte e cementata da una causa comune per «ridestare ed educare l’immaginazione altrui» contro l’apocalisse nucleare. Il filosofo tedesco sostenne infatti che l’era atomica fosse il tempo terribile in cui «siamo in grado di produrre più di quanto siamo in grado di immaginare». Quando, cioè, possiamo annientare duecentomila persone in pochi secondi, ma non riusciamo a comprenderlo, pentirci e compiangerli.
L’ombra di Hiroshima, il tempo della responsabilità
Dolorose sono le riflessioni di natura morale che Hiroshima ha fatto scaturire, in un mondo che ci ha reso tutti «incolpevolmente colpevoli» per usare le parole dello stesso Anders. Così come è forte la tensione etica che anima tutto il loro carteggio. Mentre scrive a Eatherly, lui, ebreo, legge la deposizione di Adolf Eichmann al processo di Gerusalemme: “Ero solo una piccola vite, ho solo eseguito gli ordini”. Due facce della stessa medaglia, dunque? Nient’affatto, disse, scrivendo al presidente John Fitzgerald Kennedy:
No, Eatherly non è il gemello di Eichmann, ma la sua grande e (per noi) consolante antitesi. […] Egli dice, insomma: Anche ciò che mi sono limitato a eseguire, è stato fatto da me; la mia responsabilità non riguarda solo i miei atti individuali, ma tutti quelli a cui ho preso parte; il problema morale non è solo “Che cosa devo fare”, ma “Dove e in che misura posso o non posso collaborare”. […] Eatherly è stato spesso definito un eroe. Ma, se lo è, non è già per aver lasciato, dopo il suo celebre volo, “no more Hiroshima” dietro di sé, ma perché osa gridare, oggi: “No more Hiroshima”
La notte infinita di Hiroshima
Il richiamo di Claude Eatherly alla responsabilità di ognuno di noi non può oggi essere lasciato inascoltato, nella consapevolezza che furono “amore, pace e fratellanza” a muovere il maggiore a fare la sua parte per “salvare il mondo”. Ma d’altronde: «La notte finisce mai a Hiroshima? No, non finisce mai».
Luca Cirese
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