«L’Unica Persona Nera nella Stanza, in Italia, è destinata a rappresentare tutto ciò che è minoranza». Questa frase da sola basterebbe a riassumere la tesi che Nadeesha Uyangoda sviluppa nel libro, edito da 66thand2nd nel 2021 e ristampato di recente. Basterebbe, la frase, ma in realtà no, perché solo leggendo ogni parola del libro si può arrivare a comprendere, o magari solo ad accostarsi all’entità del razzismo in Italia e all’esperienza di discriminazione quotidiana di tutti gli immigrati di prima o seconda generazione.
Attivismo non dovuto
Nadeesha Uyangoda è nata in Sri Lanka ed è arrivata in Italia a sei anni. Non stava scappando da guerre, carestie o disastri naturali, e questo è un buon punto di partenza per cominciare a smantellare i pregiudizi che tanto facilmente si formano di fronte a situazioni come la sua, prima di aver ascoltato il vissuto particolare di quella persona. Dall’arrivo in Italia Uyangoda ha imparato la lingua alla perfezione, non ha avuto difficoltà a mettersi in pari con i suoi coetanei, ha studiato, ha letto moltissimo: oggi è un’autrice freelance che scrive su testate del calibro di Rivista Studio, Vice Italy, The Telegraph. Tutto questo però, ci tiene a sottolinearlo, non è dovuto:
Essere figli di genitori immigrati non impone necessariamente di occuparsi di altro che non sia la propria vita. C’è invece l’aspettativa, a volte delle stesse nuove generazioni, che chiunque si trovi nella loro stessa condizione di multi-identità faccia attivismo.
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L’italianità è un concetto relativo
Una delle questioni chiave del libro riguarda l’identità, o meglio la difficoltà di attribuirsene una quando tanti fattori sono in ballo: quanto conta il paese di origine, se si ha un legame più forte con quello di arrivo? E come impedire che siano invece gli sguardi e i pregiudizi a definire la propria identità? È un problema, scrive Uyangoda, che riguarda qualsiasi immigrato, ma specialmente quelli cosiddetti di “seconda generazione”, nati sul suolo italiano o arrivati in età talmente giovane da ricordare appena il paese di partenza e le persone che lo abitano.
Quel paese appare però sui loro volti, sul colore della loro pelle, e rimane come una condanna per tutti coloro che non riescono a viverlo come motivo di orgoglio e ricchezza.
Sentirsi italiani è un’esperienza così personale […] che chi dà risposte di questo genere dovrebbe fermarsi un attimo e chiedersi quanto egocentrismo ci sia nella sua versione di italianità. […] I miei avi sono probabilmente nati tutti in Sri Lanka […], ma non per questo la mia versione di cosa significhi essere italiana è meno valida di quella di un leghista.
Essere più informati sul razzismo per sradicarlo
L’unica persona nera nella stanza (acquista) è un libro che intreccia aneddoti personali a commenti informati sulla situazione sociale italiana. Moltissimi sono i termini tecnici che l’autrice impiega per spiegare le diverse facce che il razzismo può assumere: per citarne alcuni, il light skin privilege, il tokenism, la misrepresentation, il colorismo. Il tokenism, per esempio, «è figlio del politically correct americano secondo cui non è accettabile una narrazione interamente bianca a meno che non includa un feticcio della diversità».
È quel fenomeno per cui nelle serie tv o nei talk politici televisivi la persona nera viene invitata come rappresentante della minoranza, della diversità intesa nel modo più generico possibile, e non in quanto esperto della materia in questione. È anche il motivo per cui nei dibattiti sul razzismo viene sempre invitata una persona nera (non diciamo “di colore” perché, come riporta Uyangoda nel libro, «di colore non si può sentire»), come se solo qualcuno discriminato per la propria pelle potesse dare una risposta al razzismo contemporaneo. Non può, invece, e non deve farlo da solo: il razzismo riguarda tutti e tutti dobbiamo farcene carico. Forse, già comprendere fatto basilare, e assimilarlo, è un primo passo nella giusta direzione.
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