In Anna, una delle sue hit più conosciute, il rapper napoletano Liberato prende spunto dalla storia del Palazzo Donn’Anna, costruito per volontà di donna Anna Carafa (1607-1644), per raccontare un amore difficile, «nato sott’’e fuoche», in cui la voce narrante chiede una resa dei conti alla persona amata, chiedendole di perdonare i propri errori.
Liberato è noto per fondere il folklore napoletano con la contemporaneità, il dialetto partenopeo con lingue come inglese e spagnolo, la tradizione neomelodica con la musica classica e quella contemporanea. Riesce a universalizzare Napoli, a unire passato e presente per raccontare cose a noi vicine.
Un’operazione del genere si intravede anche nell’opera prima di una giovane esordiente cilentana: Uvaspina di Monica Acito (Bompiani, 2023), autrice vincitrice del Premio Italo Calvino nella sezione Racconti nel 2021. Come Liberato, anche Acito sa unire infatti tradizione e innovazione, passato e presente nel suo modo di fare letteratura.
La trama di «Uvaspina»
In una Napoli sospesa nel tempo, Uvaspina narra di Carmine Riccio, conosciuto ai più, appunto, come Uvaspina, per via della sua «voglia a forma di chicco d’uva ma pallida come una luna sotto l’occhio sinistro». Come il frutto che gli dà il soprannome, il suo destino è quello di «essere spremuto, schiacciato e pestato per farci sciroppi che guariranno le malattie degli altri»: spremuto dalla sua famiglia, in particolare dalla sorella Minuccia, ma soprattutto da Antonio, un pescatore dagli occhi eterocromi verso cui nutre un amore fin da subito complicato.
Uvaspina viene definito non solo “criaturo”, ma anche “femminiello”. Quest’ultima figura è molto venerata dai napoletani come «creature libere e metamorfiche che avevano gli stessi poteri di San Gennaro, la facoltà di mettere tutto sott e ‘ngoppa e di scatenare rivoluzioni contro le menti e le cattedrali». In questa Napoli di «vasci, vicarielli e chiese sconsacrate», il protagonista è chiamato a scatenare la rivoluzione più difficile di tutte: quella dell’amore, che porta con sé dolore e sacrificio di tutto ciò a cui teniamo.
«Uvaspina»: la rottura con i cliché della letteratura meridionale
Come già anticipato, Uvaspina persegue in qualche modo una narrazione meridionale simile a quella di Liberato, che fonde la tradizione alla contemporaneità. In questo modo, il romanzo cerca di emancipare Napoli da una narrazione che o è troppo incentrata sulla periferia oppure viene edulcorata con l’immagine onnipresente del mare, e che risulta priva di tutto il sostrato folkloristico che caratterizza l’ambiente partenopeo.
Spia di questo intento si può riscontrare in un contributo che recentemente Monica Acito ha pubblicato per «In allarmata radura»:
Scrivere di Napoli è facile, difficile e pericoloso insieme. Io voglio sfuggire dal buonismo e dal cattivismo che si fa della città, voglio svolazzare come una falena sopra tutto questo, voglio provare a decostruire i cliché della letteratura meridionale e trovare nuovi modi per dire, per fare, per smontare, voglio capovolgere il bicchiere e versarci il mio liquido, il mio sangue, e in questo io sono fedele solo alla mia verità. Io voglio raccontare quello spaesamento che non smette di ossessionarmi, e voglio farlo rimanendo vicina alle pozzanghere di Forcella.
In un contributo in cui fra le tante cose si fa riferimento anche ad Anna Maria Ortese, Acito vuole raccontare una Napoli che non è solo mare o solo periferia, ma che racchiude tutte queste cose assieme. Una città perturbante, soglia fra due mondi che si compenetrano fra loro per creare una dimensione atemporale proprio com’è la vera Napoli, dove mito e contemporaneità, miseria e bellezza, ma soprattutto amore e violenza, “chiagnere e fottere” condividono uno spazio comune, e dove dialetto napoletano e lingua italiana riescono a creare assieme una lingua universale.
L’atemporalità di Napoli
In virtù di ciò, è importante soffermarsi sulla Napoli ritratta da Uvaspina, una città che ci appare come «un corpo purulento e divino». Come spiega nella nota finale, l’autrice è partita fin da subito con l’intento di creare una Napoli atemporale:
Napoli non conosce tempo, perché tutto ha una durata millenaria e istantanea: quando respiro Napoli, respiro il sangue dei secoli e anche il sangue di domani. […] Il tempo a Napoli non l’ho mai immaginato disteso su una linea dritta, ma concentrato in un punto in cui è raggomitolato un universo intero, pronto a scoppiare da un momento all’altro e schizzare ovunque il suo inchiostro scuro di calamaro. La cronologia non esiste, c’è soltanto quel disorientamento luminoso e buio insieme.
Nelle descrizioni di Napoli e dei suoi abitanti si percepisce tantissimo questa atemporalità, data soprattutto da un linguaggio pregno di immagini e metafore impiegato dall’autrice, che tanto ricorda autori del realismo magico sudamericano – corrente letteraria molto conosciuta e apprezzata dall’autrice – come Gabriel García Márquez e Isabel Allende, ma anche autori come Domenico Rea ed Elsa Morante, quest’ultimi capaci di costruire fiabe contemporanee attraverso una lingua venata di una patina arcaica e mitica.
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Questa atmosfera da racconto popolare si percepisce, per esempio, nei nomi e nelle descrizioni dei personaggi: Teresa La Storcia, Nunzia Culo Stuorto, zia Puppina, Barbara La Quaffèr ma soprattutto Graziella La Spaiata, la madre di Uvaspina e Minuccia, descritta in maniera grottesca con quella riga in mezzo ai capelli che divideva il cranio in due «con la stessa geometria con cui Spaccanapoli divideva la città antica tra nord e sude», l’alito che «le sarebbe puzzato sempre di cipolla» e «le pietruzze appuntite che stavano sulle scale di via dei Tribunali» sotto il sedere.
Napoli secondo «Uvaspina»
Quanto a Napoli e ai suoi quartieri, ci appaiono fin da subito come una realtà che incatena, che non lascia via di fuga, che dal dolore concede solo delle piccole pause. «Posillipo significava pausa dal dolore», scrive Monica Acito, «se Napoli era un gigantesco polpo, allora Capo Posillipo era la sua testa». Come un polpo, Napoli imbriglia ai suoi tentacoli Uvaspina, Antonio e Minuccia, relegandoli in un contesto di sofferenza e dolore, di impossibilità dei propri desideri, in quanto Napoli è una «città mestruata di sangue», «notturna e malafemmena»:
Guardò Napoli, quella città nata dalla coda di una sirena fetente, e pensò che puzzava. Di notte a Napoli non potevano succedere cose buone, perché Napoli era una traditrice e sapeva soltanto ridere con quei denti che scintillavano nel buio e nascondevano le carie. Napoli era cancrena e le risate di Antonio erano un morbo che nascondeva soltanto la sfaccimma di tutti gli uomini.
Quanto ai dintorni di Napoli, Chiaia viene descritta come uno «sforzo verso l’alto» con «chiese pronte a librarsi verso il cielo», la chiesa di Santa Lucia viene chiamata Luciella perché «in quei vicoli anche una santa ti può essere sorella», Palazzo Donn’Anna «se ne stava lì come un grande animale marino affacciato col muso sul pelo dell’acqua», e il centro storico «emanava un fiato caldo da animale stanco».
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La Napoli di Uvaspina ha, quindi, due volti, come due sono gli occhi di Antonio: uno rivolto verso il cielo, l’altro proiettato verso le catacombe; uno che è pregno di mito e bellezza; l’altro che ribolle di miseria e sangue. Una città i cui vichi puzzano di «ammoniaca e pelle umana» ricordando ai suoi abitanti quello che Domenico Rea in Ninfa plebea definì «il proprio puzzo», ciò che fa sì che la gente «non se ne vada di capa e si ricordi di essere animale».
Una figliata di sangue
In questo puzzo di sangue di Napoli, Uvaspina vivrà la sua storia con Antonio, una storia che si intreccia a quella di sua sorella Minuccia, lo strummolo la cui rabbia si scatena sempre sul fratello in un rapporto d’odio e amore che invece di guarire degenera in altra sofferenza. Tutto ciò trova il suo riscontro in una scena emblematica del libro – l’unica che possiamo anticipare: quella dell’uccisione della quaglia, una specie di iniziazione di Uvaspina al sangue di Napoli:
La quagliatella in mezzo alle cosce di Uvaspina ci stava larga, perché era piccola e sarebbe stata bene anche dentro una tazza del caffellatte. L’animaluccio sembrava sentire il sangue ancora umido sui pantaloni di Uvaspina. […] Dopo tre secondi, quel bianco non esisteva più: la quagliatella era una zavorra rossa e bagnata tra le cosce di Uvaspina.
In questa reinterpretazione della figliata del femminiello, Uvaspina partorisce il sangue e il dolore di Napoli, di Antonio e di Minuccia. Fin da subito definito “femminiello”, il protagonista inizia così un percorso verso il suo martirio come un santo terreno il cui sacrificio è necessario per mandare avanti una vita fatta di sangue e indifferenza.
La riscrittura della leggenda di Donna Anna Carafa
Questo sacrificio di Uvaspina coinvolge non solo il suo amore per Antonio, ma anche il suo rapporto di odio e amore con Minuccia. Emblematico in questo senso è il Palazzo Donn’Anna, la cui storia assomiglia a quella dei tre personaggi.
Secondo la leggenda, infatti, Anna Carafa, nobildonna da cui prende il nome il palazzo, era innamorata del nobile Gaetano di Casapenna. Quest’ultimo, però, era invaghito di un’altra nobildonna, Donna Mercedes. Carafa li smascherò nel momento in cui, durante lo spettacolo di inaugurazione del palazzo, Gaetano e Mercedes, attori nella messa in scena, si baciarono appassionatamente. Presa dalla gelosia, Donna Anna fece sparire Donna Mercedes, molto probabilmente murandola viva nel palazzo, e secondo le credenze popolari i fantasmi delle due donne si tormentano pure da morte e le loro urla si possono sentire per tutto il palazzo.
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Se si considera questa storia, Minuccia interpreta il ruolo di Donna Anna, mentre Uvaspina quello di Donna Mercedes e Antonio quello di Gaetano di Casapenna. Il loro è uno spettacolo che ha il solo fine di mostrare l’impossibilità dell’amore e della guarigione del dolore altrui.
Uvaspina viene spremuto non per rendere possibile l’amore, ma per confermare un martirio annunciato che alimenta le viscere ribollenti di Napoli, una divinità indifferente alla sofferenza altrui, che rende impossibile ogni tentativo di riscatto e redenzione. Tornando a Liberato, l’amore per i tre è nato sotto il fuoco: è sofferenza, violenza, ti conduce agli inferi e ti condanna a inseguire senza sosta un desiderio di felicità che mai si realizzerà.
«Uvaspina»: un ammore nato sott’’e fuoche
Parafrasando Pino Daniele, Uvaspina (acquista) è un romanzo in cui «si chiagne e si jastemma, si fotte e si scanna». In una Napoli che odora di sangue, mistica e pregna di miseria allo stesso tempo, i protagonisti imparano come dal dolore non c’è via d’uscita, come l’amore sia un desiderio irrealizzabile in una città che ti tiene imprigionato nei suoi tentacoli di violenza e sangue, e soprattutto come la felicità richieda un sacrificio troppo alto, che spesso corrisponde alla rinuncia di ciò che di più caro si possiede.
In quella penombra, la sua pelle aveva il chiarore irreale delle statue di cera, e solo un po’ di rosa strofinava le sue gote, dove era passata la lacrima; il petto si alzava e si abbassava velocemente, per l’affanno che solo ora stava iniziando a placarsi, e le ciglia umide gli rendevano gli occhi più tondi e brillanti. Il neo a forma di chicco d’uva sotto l’occhio sinistro sembrava vivo, una coccinella che gli voleva camminare dalla palpebra alla guancia per poi staccarsi e volare. Uvaspina pensò che forse da quel buco sarebbe uscito tutto il dolore che aveva dentro.
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