Vita

Call letteraria: Biglietto del museo

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A Vincenzo piaceva dormire sul lato destro del letto. Sentiva il materasso più morbido e confortevole, soprattutto per la sua malandata schiena, trucidata e colpita dalla vecchiaia. Vincenzo a destra stava meglio, forse perché l’aveva votata per tutta la sua vita, forse perché si sentiva più un uomo santo invece che un uomo di spirito; sul comodino di fianco al letto teneva un rosario a cui non dava più nessun valore e aggrovigliata in quel rosario una foto sbiadita era coperta da qualche medicina vecchia, dimenticata e ingiallita dallo scorrere del tempo. Essere alla soglia dei novant’anni non lo rendeva triste, lo faceva solo sentire stanco, stanco di esistere, stanco di sentire il suo corpo sempre più lontano, stanco di fare fatica a ricordare. Avere quasi novant’anni, al contrario di quello che si era sempre ripetuto stupidamente come un pappagallo, lo rendeva più nervoso e meno paziente. Si arrabbiava in continuazione, non sopportava più il caldo, la sua pelle flaccida, le vene delle gambe distrutte, gli odori nuovi estranei al suo grande naso. Era diventato un uomo insopportabile che non sopportava più niente e ne era ben conscio, per questo si odiava e tendeva a vivere nell’attesa di qualcosa, un’attesa che però gli nascondeva il resto, come un paravento troppo stretto, e lo rendeva acido, tremante e fragile. 

Il caffè lo prendeva solo appena sveglio al bar sotto casa, l’unico vizio che aveva mantenuto dalla sua gioventù lontana. Con il cappello sulla nuca e il bastone lungo il braccio destro usciva dalla porta, attraversava il grande portone e dopo due vicoli salutava Mario e Pietro, seduti al solito tavolino accompagnati da due bianchi mattutini e sorrisi sdentati. A Vincenzo piaceva bere il suo caffè al bancone, davanti ai rumori meccanici del bar e qualche prima pagina di cui guardava solo le notizie in alto, quelle sportive e culturali, le altre erano troppo lunghe. Pagava alla cassa con le monetine incastrate e ammuffite nel suo marsupio, pieno di fogli e foglietti di cui non ricordava la provenienza, di ricordi materiali accumulati in modo disordinato senza appigli precisi, senza più un luogo e un tempo a cui essere associati. Un giorno, per prendere gli ultimi venti centesimi, tirò fuori casualmente un biglietto ingiallito, di un museo vicino a casa sua, senza la data e il titolo particolare della mostra: Vita. Il suo viso si ingrugnì di colpo, non riusciva a capire cosa stesse toccando, un foglio impolverato, vecchio e stracciato, ma che parlava di qualcosa che sentiva vicino, troppo vicino per poter ignorare ciò che aveva trovato. 

Per tutto il giorno quel biglietto restò nei suoi pensieri, lo tenne tra le mani mentre restò a giocare e mangiare con Mario, lo posò solo quando tornò a casa per riposare, mettendosi comodo sulla sua cara poltrona, ascoltando Dalla e iniziando a russare, sbavandosi leggermente sulla camicia. Si svegliò ripensando al museo, chiuso da qualche anno e l’entrata se la ricordava sempre sbarrata, anche se strane luci alcune sere illuminavano fiocamente la piccola via dove si affacciava. Si alzò dall’amata poltrona, allacciandosi i pantaloni e pulendosi la bava dalla camicia, si mise le scarpe, il cappotto e uscì di casa senza neanche pensarci, perché altrimenti la sua pigrizia avrebbe vinto per l’ennesima volta. Aveva ancora sonno, ma con il biglietto tra le mani aveva voglia di aria fresca, di sentire il profumo dei suoi fiori preferiti, aveva voglia di camminare, di sentire la terra sotto le sue ginocchia scricchiolanti. In strada si pentì amaramente di essere uscito, come ogni volta che metteva piede fuori casa. Si arrabbiò con sé stesso, si incazzava quando prendeva decisioni senza pensarci troppo, ma ormai era arrivato, il vecchio museo era già davanti a lui, ad aspettarlo.

Il museo era oltre il giardino di un vecchio palazzo rotondo di inizio Novecento. Il portone era chiuso, provò a bussare qualche volta, ma non ricevette alcuna risposta, finché non si accorse che nel lungo citofono era ancora presente un piccolo bottone con la scritta museo, sbiadita e poco visibile. Lo schiacciò con lo sguardo verso l’alto, sperando forse di poter tornare sui propri passi e dimenticare quella stupida coincidenza, invece il portone si spalancò, mostrandogli un bellissimo giardino, dove fiori e piante erano illuminati divinamente dalla forte luce del sole di quella giornata. Uno strano silenzio rimbombava su alte pareti, con il soffitto dipinto e gli infissi di legno scricchiolanti e asimmetrici. Il suo vagare per quelle stanze infinite, gremito di quadri e statue di cui non conosceva la provenienza e l’epoca, venne interrotto dai passi incombenti di un uomo in smoking, sorridente e di bell’aspetto. Aveva circa trent’anni, gli occhi di ghiaccio e una voce rassicurante.

«Buongiorno signor De Feudis, è qui per la mostra?»

«Sì, sì» rispose sbattendo gli occhi non troppo convinto della risposta che gli aveva dato.

«Allora mi segua, signore, è tutto pronto per lei» lo prese per mano e lo accompagnò all’entrata della mostra, una grande stanza piena di quadri e fotografie che si guardavano negli occhi come due amanti, con il solito tappeto rosso fastidioso, sporco e maleodorante che si calpestava in ogni museo degno di essere chiamato tale. Vincenzo sentiva freddo, quel luogo così ampio lo metteva in imbarazzo ed essere lì, con uno sconosciuto che non gli stava troppo simpatico, gli fece venire voglia di scappare e tornare a casa, alla sua poltrona, al suo sonno interrotto. 

«Vincenzo, la prima tappa della mostra è questo bellissimo quadro sferico, dipinto a matita da un artista sconosciuto, rappresentante due soldati italiani feriti in una trincea, uno dei due sta cucendo il braccio dell’altro, colpito da un proiettile nemico mentre gli spari restano insistenti e assordanti sullo sfondo» la guida parlava e Vincenzo ascoltava senza fare domande, incantato dai dettagli, da come la neve cadeva sulle loro spesse giacche, dal colore violaceo delle mani del soldato che curava l’amico svenuto, forse già morto. A Vincenzo venne caldo, si tolse il grande cappotto che quasi toccava il pavimento e lo strinse tra le mani, percepiva il caldo che si prova quando si vuole essere da qualche altra parte e ignorare ciò che si guarda, perché ciò che si ha davanti provoca qualcosa che non si vuole provare. 

«Qui invece abbiamo una fotografia in bianco e nero di una giovane coppia, è stata scattata il giorno del loro matrimonio, di fronte alla chiesa in cui si è svolta la cerimonia. Della coppia sappiamo probabilmente solo le iniziali dei loro nomi, S e V, scritte a mano dietro la foto, insieme alla data.» Vincenzo faticava a dare un vero significato all’amore, lo aveva sì provato, ma non riusciva a ricordarlo bene, a mettere a fuoco qualcosa che nella sua mente era sbiadita e lontana. Aveva sentito l’amore sempre come una sottrazione, togliere per dare, forse per questo non voleva ricordare, perché sentiva di aver commesso troppi errori. Quelle due persone nella foto neanche si guardavano negli occhi, ma si erano appena fatti una promessa, Vincenzo si chiedeva se il loro fosse vero amore, Vincenzo continuava a chiedersi se il loro amore fosse finito quando la morte li avrebbe separati o semplicemente fino a quando doveva durare, come un fiore appassito dal tempo e dalla noia.

«Sta bene signor Vincenzo?» chiese la guida andando avanti, verso le prossime opere.

«Sì, sì. È solo tutto così strano e atipico, ho un gran mal di testa, ma possiamo continuare.» 

«Perfetto, allora le faccio vedere l’unico quadro ad acquarelli di questa mostra, un uomo che piange con un bambino in braccio. L’artista in questione estremizza l’atroce dolore che l’uomo prova facendolo lacrimare sangue, esplicitando come la perdita di un figlio sia qualcosa di estraneo, di contrario alla nostra natura. Si percepisce come il piccolo bambino si stia spegnendo lentamente, abbandonando una vita che gli è stata tolta da una malattia…» La guida non riuscì a finire la presentazione, smise di parlare quando vide Vincenzo piangere, con entrambi le mani sulla faccia per fermare le lacrime e per non essere visto in quelle condizioni. 

«Ma che mostra è mai questa!?» urlò buttando fuori una sensazione che non riusciva a capire. «Cos’è tutta questa roba? Di chi cazzo è!?» urlò di nuovo, snervato, allo stremo delle poche forze che aveva.

«Davvero ancora non ricorda, signor Vincenzo? Questa è la sua mostra, la sua vita.»

«Non dica stronzate! Stia zitto! Questa non è la mia vita!»

«Sì, signor Vincenzo. L’intero museo è stato costruito da lei per ricordare una vita che ogni giorno dimentica. I quadri, le foto, tutto è stato portato da lei, una volta mi ha raccontato che una delle foto è ancora sul suo comodino, ma è una foto che non riesce più a guardare. Me lo faccia dire però, da giovane era un grande artista.»

«No… No… Tutto questo è impossibile, è uno scherzo…»

«Signore, sono dieci anni che ormai è malato e qualche anno fa mi ha affidato questo posto per ricordare chi era, per non dimenticare chi è stato in questa vita. Tutti i musei raccontano una storia, una vita, e questa è la sua.»

Nella memoria di Vincenzo riaffiorò Paolo, il migliore amico che aveva perso al fronte, dentro quello sporco buco, senza mai perdonarsi di essere stato lui a tornare a casa, solo come un cane. Riaffiorò il volto angelico di Silvia, mentre partoriva con dolore il piccolo Paolo, la creatura che più riuscì ad amare in quei tristi tre anni di malattie, urla e richieste di aiuto. Riaffiorò il corpo esile e fragile di Silvia mentre lo salutava con un bacio sulla porta di casa, pronta con le sue grandi valigie a scappare da un dolore che la stava uccidendo. 

E Vincenzo salutò il ragazzo come si saluta qualcuno di caro, tra le lacrime e un sorriso gioioso, tra la paura di dimenticare per l’ennesima volta ciò che era stato e l’emozione infantile di sapere che l’indomani avrebbe ricordato tutto di nuovo. Tornò a casa sentendosi qualcuno, un’anima piena che ha fatto un viaggio dimenticato, un’anima persa che continua a ritrovare i propri passi, fermo e chiuso dentro una dimensione effimera costruita sul dolore e la malinconia. Disteso sul lato destro del letto quella sera si addormentò ricordando. Era ancora vivo.

Racconto di Federico Metri / Fotografia di Annalisa Insinna

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Redazione MM

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