Lo scrittore francese Georges Bataille una volta scrisse che «l’orrore [è] legato alla vita come un albero alla luce». La paura e il terrore sono emozioni telluriche, che scuotono nel profondo l’animo dell’essere umano, ma attraverso di esse quest’ultimo riesce a conoscere sé stesso. L’essere umano, dunque, ha bisogno dell’orrore per tornare a un rapporto autentico con la propria esistenza e il proprio corpo.
Non si è deciso di usare la parola “tellurico” a caso. Questa è la parola chiave di Voladoras, raccolta di racconti della scrittrice ecuadoriana Mónica Ojeda, originariamente pubblicata nel 2020, che i tipi di Alessandro Polidoro Editore hanno pubblicato quest’anno con traduzione di Massimiliano Bonatto, a cui dobbiamo la scoperta di un’autrice che ha saputo rinnovare l’horror sudamericano fondendo folklore andino a cultura pop e inserendovi tematiche contemporanee come la violenza sulle donne o la pedofilia.
I racconti di «Voladoras»
Ragazzine che osservano creature volanti con un occhio solo dalle sembianze di una donna, donne ossessionate dal sangue e dalla morte di giovani studentesse, due sorelle che sperimentano il dolore attraverso la musica e uno sciamano che cerca di riportare in vita la figlia morta. Queste sono tra le figure principali dei racconti di Voladoras. Sono tutte figure alle prese con violenze subite nel passato, che si confrontano con una perdita, che hanno difficoltà nel proprio rapporto con il corpo.
Leggi anche:
La paura come consapevolezza del sé in «Mandibula»
Come in tutte le opere di Ojeda, anche in questi racconti i personaggi intraprenderanno un cammino di consapevolezza del sé dove orrore e morte, vita e bellezza procedono di pari passo, in quanto i primi sono necessari affinché ci si possa appropriare degli istinti e della vita, ma anche del proprio corpo.
«Voladoras»: l’influenza della cultura andina
A differenza di Nefando e Mandibula, qui in Voladoras l’influenza della cultura andina è molto forte: il racconto Voladoras, ad esempio, prende spunto dalla figura popolare della voladora, tipica delle tradizioni della provincia ecuadoriana del Carchi, consistente in una donna che, in fase di trance, sale sui tetti delle case, si spalma il miele sotto le ascelle e vola durante la notte dimenticando quanto accaduto la mattina prima. In La testa che vola, invece, il rimando è alla figura della uma, una strega andina capace di staccare la testa dal corpo secondo la sua volontà, mentre in Soroche si accenna alla leggenda del condor che si suicida nel momento in cui si sente inutile alla vita.
Ojeda non fa altro che estremizzare certi elementi della cultura andina già in parte presenti in Mandibula e fa propria l’idea secondo la quale vita e morte, materia e sovrannaturale sono intrecciati fra loro, come dichiara in un’intervista rilasciata qualche anno fa:
Mi interessa una scrittura che sia un po’ tellurica, nel senso più stretto del tellurismo: intendere la terra come un luogo di contraddizioni. Dalla terra esce la carne che nasce, ma si decompone anche. Pertanto, conserva il mistero della fertilità, ma anche quello della putrefazione. Conserva quello che ci fa più paura: la morte, la scomparsa, il dissolversi un’altra volta con il tutto. Questa idea è anche una sorta di continuità col mondo andino. La morte non è il fine, ma un ritorno al tutto, una continuità e un trasformare la materia da una cosa all’altra.
La scrittura tellurica di Mónica Ojeda
Questa affermazione di Ojeda si può riscontrare nel racconto Il mondo di sopra e il mondo di sotto, che racconta di uno sciamano che, in una specie di rivisitazione andina del mito di Orfeo ed Euridice, cerca di fa resuscitare la figlia Gabriela dal regno dei morti:
Disegno sulle pietre bianche. Do un nome alla morte perché alla parola è come il vulcano, in cui è custodita l’altissima temperatura della terra. Questa scrittura estatica, minerale, unisce il mondo di sopra e quello di sotto in un unico canto di risurrezione. Un canto di aridità, del silenzio che esiste oltre il vuoto.
Più avanti nel racconto, lo sciamano afferma che «la morte scolpisce i nostri corpi in forme essenziali e poi ci lascia soli», ma anche che «scrivere è avvicinarsi a Dio, ma anche a ciò che sprofonda». Questo racconto ci offre una chiave di lettura importante per la scrittura di Ojeda, che tanto si avvicina all’idea di scrittura per il già citato Bataille: scrivere è un incontro con la morte, e incidere i corpi con la violenza diventa un modo estremo per far rivivere quanto si è perso, ma anche prendere il controllo di ciò che resta.
Leggi anche:
«Nefando»: come esprimere l’indicibile
L’orrore e la paura: lingua senza uomini
L’incontro con la morte e la violenza sono ciò che permettono ai personaggi ritratti da Ojeda una trascendenza tale da rinnovare la propria vita. Se nel racconto Sangue coagulato il personaggio di Ranocchia afferma che il sangue «racconta la verità e la bellezza», per le sorelle di Slasher l’interesse per l’estremo rappresenta «un ritorno alla vita prima del linguaggio».
Quest’ultima espressione è molto interessante, in quanto si ricollega ai primi lavori di Ojeda. In Mandibula, ad esempio, il narratore dice a proposito della paura di Clara che «era biologica e parlava una lingua senza uomini». Per l’autrice, dunque, ritorna importante ribadire quanto siano fondamentali certe esperienze estreme, in quanto mostrare le ferite del proprio corpo e l’emozioni estreme costituiscono l’unico modo di comunicare e di comunicarsi al mondo.
«Amare è tremare»
Ojeda ci porta ad ascoltare il corpo più che la parola già nel primo racconto, Voladoras, dove la narratrice invita il suo interlocutore a guardare le sue espressioni del volto: «Se vuoi che te lo spieghi per bene», afferma, «guardami. Sulla mia faccia c’è tutta la verità, quella che non ha parole ma espressioni. Una verità che è materia, che si può ascoltare e toccare».
Leggi anche:
Fare i conti con il proprio corpo
Il corpo si fa scrittura sovvertendo la parola, che per l’autrice è ciò che è capace di distruggere e di fare violenza, anzi, di negare la violenza. Il corpo è quella scrittura tellurica di cui parla Ojeda: ciò che ci connette all’esistenza, che ci permette di vivere e rigenerarci. La dentiera del padre della protagonista di Canini risveglia sì in lei ricordi di violenza e abusi, ma paradossalmente questi ricordi le permettono di sentirsi viva e di ritrovare una nuova vita dominando i ricordi e la figura del padre, mentre Ana, la protagonista di Soroche, giunge alla consapevolezza che «la bruttezza vince sempre», e per vivere non bisogna avere paura di accoglierla, in quanto costituisce l’aspetto più fondamentale e autentico del proprio corpo.
«Voladoras»: l’orrore è vita
Con questi racconti, Mónica Ojeda continua la sua indagine sull’orrore e la violenza. Parafrasando Mandíbula, Voladoras (acquista) ben riesce a comunicare quanto «la paura sia un’emozione futurista del corpo», qualcosa di necessario per riappropriarsi di sé e della propria corporeità. Un sentimento necessario che non ha bisogno di parole per essere espressa, poiché è attraverso le ferite del corpo che si manifesta, in quanto sono necessarie per rinnovare e rigenerare la vita. Come si legge in Sangue coagulato:
Non so perché la gente pensa che la morte sia nera. Dentro di noi ci sono fiumi rossi e un bosco che esplode se si rompe, ma tutto rimane nascosto sotto la pelle di gallina, a chiocciare. Per vedere la bellezza del sangue devi incidere il corpo: uccidere, restituire alla terra la grandezza della radice sanguigna. Se le tagli il collo, una mucca strilla e cadendo scalcia il vento e gli occhi le diventano bianchi. Il rosso è come un torrente, un fiume senza pietre che le esce dalla ferita. Lasci zampillare la bellezza perché la morte dura un istante, poi se ne va e rimane soltanto un morto, e i morti sono brutti.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!