Liturgia del disprezzo esce per la prima volta in Francia nel 1986, prima della famigerata intervista in cui Antoine Volodine conia il termine post-esotismo. Volodine, nato come scrittore fantascientifico, tuttavia, già all’epoca cela in sé tutti i presupposti per la ricerca di nuovi canoni, utili per oltrepassare la barriera dei generi e porre le basi per una letteratura talmente nuova da risultare quasi estranea.
Un’esistenza votata alla costruzione di un “sistema” post-esotico, il cui programma prevede la composizione in quarantanove volumi, con riferimento al Libro tibetano dei morti. Libri scritti da vari eteronimi dell’autore che, durante le interviste, a ragione, parla con un generico “noi”.
Presupposti per una scrittura di rivolta
Siamo di fronte a una scrittura dissidente, di frontiera, attenta alla descrizione dei reietti dei reclusi. Lo stile di Volodine è sì gesto politico, ma soprattutto affermazione artistica. Come precisa l’autore in un’intervista rilasciata a Stefano Malosso e pubblicata su Doppiozero: «La parola non serve a nulla rispetto alla situazione contingente in cui gli scrittori si ritrovano incarcerati, e non serve a nulla rispetto a ciò che avviene fuori. Non è certamente un’arma, è un mezzo per continuare a mantenere viva un’esistenza di creatività.» E Liturgia del disprezzo non fa eccezione.
Tra assonanze, sospensioni e impressioni
In Liturgia del disprezzo, già vincitore del Grand Prix de la Science-Fiction Française, Volodine padroneggia fin dalle prime pagine una prosa scarna, incisiva e spietata. Un incipit che proietta il lettore in uno squallido seminterrato dove un uomo è torturato dalla polizia segreta. Il comandante Otchaptenko malmena il prigioniero, costringendolo a ricordare tutto ciò che è successo, a partire dalla sua infanzia.
La confessione del narratore, con tutte le proprie idiosincrasie, svela un universo indefinito, popolato da razze aliene in combutta e in diatriba fra di loro. I nomi delle famiglie, dei parenti, si confondono e le loro assonanze diventano motivo di sospensione, di rottura rispetto a una narrazione lineare. La componente onirica lascia spazio al falso ricordo, frantumando quel confine già labile tra verità storica e verità letteraria:
A volte mi sembra di invertire i ruoli. Palude incoerente di impressioni d’infanzia dove tutto s’impantana. Cerco di trattenere, nel palmo delle mani, le acque incontrollabili del sogno. Non resta nulla, tranne la sensazione di essermi distrutto lottando con ombre proibite.
«Liturgia del disprezzo»: di sangue e integrazione
In uno scenario post-apocalittico, i centri urbani assumono la conformazione di cantieri, fabbriche, rivolte verso il nulla. La vita non viene mai data per scontata e tutti i personaggi di Liturgia del disprezzo si rivolgono alla sopravvivenza, dediti a una vita agra dove l’unica consolazione è diventare predatori.
Un’esistenza violenta, di cui il comandante cerca di sondare le ragioni e le origini. Il prigioniero, d’altronde, appartiene ai Feuhl, la cui peculiarità «è quella di assorbire le caratteristiche dei popoli» che si incontrano. Una forza di adattamento fondamentale per preservare il perpetrarsi della specie. Una guerra di trincea, quasi solitaria, vissuta come una conquista a tappe, dove la sola intuizione permette di evitare alcune trappole appositamente pensate per contrastare la sua specie.
Una mimetizzazione che comporta una laboriosa opera di spionaggio che, nel narratore, trova delle connotazioni singolari. Infatti, mentre dalla madre ha ereditato il gene dei Feuhl, è anche il portatore del sangue dei Wolguelam, la stirpe del padre, un’indole decisamente più aggressiva, viscerale:
L’ho già spiegato, in me scorreva un misto d’influenze. Quella essenzialmente feuhl di mia madre e quella vagamente wolguelam di mio padre. In seguito, quando ho lasciato per sempre la cerchia familiare e sono riuscito a spezzare il cerchio paralizzante della tribù, quelle tracce si sono diluite e sono poi scomparse. Ma non il ricordo di quelle tracce.
Mater dolorosa
Nell’edizione pubblicata lo scorso settembre da 66thand2nd di Liturgia del disprezzo (acquista) troneggia in copertina una mater dolorosa di Filippo Cegani. Una figura emblematica che nel testo potrebbe trovare un’analogia nella madre del prigioniero. Anche durante il cataclisma sociale, Volodine riesce comunque a definire alcune sensazioni ataviche che accomunano tutte le specie. Ad esempio, appunto, le reazioni quotidiane di una madre diventano gesti quotidiani che assumono quasi rituali sacrificali per preservare dal male almeno il proprio figlio.
È proprio in questi momenti che la scrittura di Volodine sorprende per la capacità di tratteggiare mondi paralleli con poche ma precisissime impressioni. La sua realtà si costruisce così agli occhi del lettore di volta in volta, acquisendo una propria autonomia e una sempre più maggiore concretezza.
Volodine diventa ed è uno scrittore realista, come può esserlo Kafka, a sua volta discepolo della lezione di Flaubert. Tuttavia, come nel caso del praghese, anche Volodine ha un realismo che si spinge al di là, oltre i dati sensibili, prefigurando un’analisi esotista che trova forma nei dati inconsci del nostro progredire.
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