Uno scrittore non si giudica se non attraverso i libri. Così scriveva Sebastiano Vassalli in un articolo del 2005 per il “Corriere della Sera”, in difesa di Ignazio Silone, travolto da polemiche postume e accuse di ambiguità politica. Si può essere d’accordo o meno, ma una verità resta: l’uomo può essere condannato, e insieme salvata la sua opera. È certamente una tensione, un paradosso. Ma è anche una necessità, se non si vuole perdere il meglio della letteratura per il peggio dell’umanità. Si prenda ad esempio Louis-Ferdinand Céline: l’antisemita, il collaborazionista, il fuggiasco. Eppure, il suo capolavoro letterario resta uno dei più sconvolgenti romanzi del Novecento: una catabasi spietata nel cuore nero della condizione umana.
Sconvolgente a tal punto che, forse, candidato al premio Goncourt, Viaggio al termine della notte ha fatto rigirare Proust nella tomba. Nessuna delle regole auree del bello scrivere è stata rispettata da Céline. Al contrario: le ha disintegrate, calpestate con disprezzo. Ha costruito il suo romanzo con un realismo brutale e disilluso, conducendo il lettore verso il più infimo dei punti d’accesso dell’animo umano, verso il riconoscimento di verità oscure che regolano il mondo degli ultimi. Fa del protagonista, Bardamu, il suo alter ego: il testimone di un’umanità alla deriva. È un vigliacco che rifiuta l’eroismo, un disilluso che osserva senza filtri il mondo, e lo attraversa senza mai trovare pace né salvezza. E in questo viaggio, con la lama puntata al petto, Céline guarda la vittima – il lettore – negli occhi mentre affonda il colpo.
Eppure, quel che più sorprende – e quasi sconcerta – sono le improvvise pennellate di bellezza che resistono nel mare di cinismo. È come se, tra i detriti della disumanità, affiorassero a tratti brandelli di luce, frammenti di speranza. Due esempi. Due scene. Due momenti che restano impressi.
Vestirsi da genitore
Bardamu si trova in Africa. Terra spietata a cui il sole non dà tregua, infestata da zanzare, febbri, sudore, morte. In questa bolgia coloniale, incontra Alcide, un sergente viscido e ambiguo, che si arricchisce sfruttando uomini e risorse. Un giorno, nell’ufficio di Alcide, Bardamu trova la fotografia di una bambina. Il sergente confessa: si tratta della nipote. La figlia del fratello, rimasta orfana. E all’improvviso, l’uomo losco si fa padre – o qualcosa che gli somiglia.
«[…] La faccio educare a Bordeaux dalle Suore… Ma non le Suore dei poveri, mi capisci eh! Dalle Suore ‘bene’ […] Non voglio che le manchi niente! Ginette, si chiama… È una ragazzina molto carina… Lei mi scrive, fa progressi, solo che, sai, una retta così, è cara… Soprattutto adesso che ha dieci anni… Mi piacerebbe che imparasse anche il piano… Cosa ne dici tu del piano? Va bene il piano, eh, per le ragazze? Credi mica? E l’inglese? È utile anche l’inglese?»
In quell’istante, dopo cinquanta pagine di disumanità, appare la voce di un genitore che tenta disperatamente di assicurare alla sua piccola il meglio, ciò che probabilmente egli stesso non ha mai avuto.
Bardamu rimane incredulo, si sente piccolo, «indegno di parlargli»; lui che fino al giorno prima lo disprezzava. Indegno. È così che ci si sente davanti a un genitore che sacrifica tutto per un figlio. Chi può stare sullo stesso gradino di un padre, di una madre?
Il sergente va a dormire. Bardamu no. Non ci riesce. Ha questo pensiero fisso. Guarda Alcide riposare e pensa: «Dormiva come tutti. Aveva l’aria proprio normale». Chiudendo il capitolo con una frase che punge come uno spillo dritto nel petto: «Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi».
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«Viaggio al termine della notte»: l’amore all’inferno
Qualche mese dopo, Bardamu riesce a sbarcare in America. Prima New York, poi Detroit. E lì, nel cuore industriale del mondo, trova persino l’amore. Molly. Una prostituta. Ma anche l’unica, fino a quel momento, a guardarlo da dentro, non solo da fuori. A giudicarlo mettendosi al suo posto. Molly è bella, gentile, luminosa. Eppure, Bardamu resta preda della propria inquietudine. Crede sia troppo tardi per «rifarsi una giovinezza». Si sente già logoro e irrecuperabile, vecchio e stanco.
«La natura è più forte di te, ecco tutto. Ci prende le misure in un certo genere e non puoi più uscirne»
Lui sente di amarla. Ma ama ancora di più il proprio «vizio»: la voglia animalesca di scappare da ogni posto, il disprezzo per qualsiasi cosa, l’orgoglio stupido che lo spinge sempre oltre, sempre altrove. Molly lo capisce. Non dice nulla. Resta dolce, forse soffrendo, anzi, soffrendo di certo. Gli sussurra:
«Sei come malato della voglia di sapere sempre di più»
Si salutano in stazione. Lui promette di tornare. Lei sa che non tornerà mai. Di certo, Bardamu la terrà sempre con sé, dentro di sé.
«Buona, ammirevole Molly, vorrei, se può ancora leggermi da un posto che non conosco, che lei sapesse che non sono cambiato per lei, che l’amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando vuole a dividere il mio pane e il mio destino furtivo. Se lei non è più bella, ebbene tanto peggio! Ci arrangeremo! Ho conservato tanto della sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora, il tempo di arrivare alla fine.
Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque, ho difesa la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d’America.»
Nella desolazione, nel gelo della notte, brillano improvvisi questi bagliori di umanità. Brevi fiammate. Eppure, così forti da scaldarti nel profondo. È questo, forse, il miracolo che Céline compie in Viaggio al termine della notte (acquista). Il miracolo che, a dispetto di tutto – della sua vita, delle sue ombre, delle sue infamie – ci permette di dimenticare l’uomo, e di aprire ancora, senza rimorsi, questo libro che porta il suo nome in copertina.
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