Tanti hanno conosciuto Pia Pera grazie a Due vite di Emanuele Trevi, meritato vincitore del Premio Strega 2021. E probabilmente si sono innamorati di lei “per interposta persona”, soltanto leggendo le pagine colme di affetto che le ha dedicato l’amico di vecchia data Trevi:
La Pia che molti ricordano, anche grazie a certi suoi bellissimi libri, la Pia matura e poi malata, mise in atto dei tali processi di semplificazione e di pulizia interiore, che si sarebbe quasi tentati di dire che le difficoltà della vita rendano le persone migliori e più forti. Io non ci credo, non ammetterò mai che un dolore o una malattia servano a qualcosa, è solo una consolazione moralistica […] Pia fu brava a fare buon viso a cattivo gioco, non ho mai conosciuto una persona così coraggiosa, ma sono sicuro che la pensasse come me. E dunque mi piace evocarla nel tempo in cui tutto doveva ancora accadere, prendere forma. Il tempo della sfrontatezza, della timida sfrontatezza di Pia.
Pia Pera – scrittrice, saggista, traduttrice, docente di Letteratura russa – muore nel 2016 a soli sessant’anni dopo una lunga battaglia contro la SLA. A questa esperienza dedica il suo ultimo romanzo, Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie, 2016), una sorta di diario dei suoi ultimi anni di vita che ha scelto di condividere con i lettori. Il libro giusto per conoscere questa straordinaria autrice.
«Al giardino ancora non l’ho detto»: cronaca di una malattia degenerativa
Chi ha letto Due vite riconoscerà senz’altro l’incipit di Al giardino ancora non l’ho detto: «Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo». Inizia tutto da queste poche righe, asciutte, che fanno subito capire al lettore che piega prenderà la storia. Nessun bisogno di indorare la pillola. Comincia da qui il viaggio di Pia Pera in questa malattia di cui non si spiega la causa e alla quale cerca di trovare un rimedio in ogni modo, affidandosi alla medicina tradizionale ma anche a ciarlatani, non per ingenuità ma per sentire di non aver lasciato nulla di intentato. Si informa anche sulla possibilità del suicidio assistito in Svizzera, per poi lasciar perdere.
Come già osservato, Al giardino ancora non l’ho detto sembra più un diario che un romanzo vero e proprio. Mancano i classici riferimenti temporali, ma è facile intuire il passare del tempo dall’inesorabile peggioramento delle condizioni di salute dell’autrice, che dapprima parla di una semplice «disarmonia nel passo», poi si aiuta con un bastone, infine ha bisogno della sedia a rotelle. In una delle ultime pagine parla addirittura di non avere più modo di scacciare una zanzara:
Una zanzara tigre si posa sul mio piede. Non sono in grado di cacciarla via. Non posso scappare. Come una pianta.
Si capisce, inoltre, che l’opera nasce come diario perché spesso mancano informazioni sulle persone citate («Louise mi scrive», «Questi pensieri li interrompe l’arrivo di Tommaso»), che vengono solo nominate come se non servisse aggiungere altro. Il lettore non sa di preciso chi sono per Pia Pera, ma forse non importa. Sono persone che scelgono di restarle accanto negli ultimi, dolorosi anni della sua vita, e tanto basta.
La morte dal punto di vista di chi resta
Pia Pera sa che la sua malattia può solo peggiorare. Sa che non invecchierà mai. L’idea della morte più o meno imminente si manifesta dalla lettura casuale di una poesia di Emily Dickinson, I Haven’t Told My Garden Yet, a cui Pia Pera si ispira per il titolo del suo libro:
I haven’t told my garden yet –
lest that should conquer me.
I haven’t quite the strength now
to break it to the Bee.
Al giardino ancora non l’ho detto –
non ce la farei.
Nemmeno ho la forza adesso
di confessarlo all’ape.
(traduzione di Pia Pera)
Emily Dickinson prima e Pia Pera poi rovesciano l’idea canonica della paura della morte: paura non più per sé, ma per chi resta e dovrà rassegnarsi a vivere senza di noi. E allora si cerca di rimandare il più possibile il momento dell’annuncio della morte, per rimandare il più possibile il dolore degli altri. Pia Pera, che per il suo giardino ha provato lo stesso affetto che si riserverebbe a un essere umano, non osa dire ad alta voce alle piante che un giorno si ritroveranno senza le sue cure. Ma quelle cure, d’altronde, non può più profonderle nemmeno negli ultimi anni della sua vita. È un altro giardiniere, per quanto fidato, a occuparsi delle piante dell’autrice, costretta a guardarle da lontano.
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Il pensiero di Pia Pera va costantemente a un altro essere vivente che, a differenza degli umani, non può prepararsi alla sua morte e sarà condannato a trovarsi solo senza il minimo preavviso: la sua cagnolina Macchia. È per lei che rinuncia al suicidio assistito. Eppure, al tempo stesso, si sforza di farle passare più tempo possibile con altre persone, come a farla disabituare a lei e rendere l’addio meno doloroso. Ancora una volta, la paura è per chi resta.
La leggerezza, nonostante tutto
In Due vite Emanuele Trevi parla della straordinaria leggerezza della scrittura di Pia Pera con riferimento alla sua traduzione dell’Evgenij Onegin di Puškin:
era uscita da Marsilio […] la sua traduzione dell’Onegin, in versi liberi di straordinaria leggerezza, pieni di tutte le migliori qualità di Pia: la malizia, l’intelligenza scintillante, il brivido metafisico al punto giusto.
La stessa leggerezza la ritroviamo in Al giardino ancora non l’ho detto (acquista), con parole che sembrano concatenarsi da sole, come se fossero fluite senza fatica dalla tastiera dell’autrice e non avessero potuto disporsi in alcun altro modo. Ed è una lievità che stride con l’argomento trattato. Diverse pagine risultano sì commoventi, ma non c’è mai davvero spazio per la disperazione. Come se Pia Pera avesse trovato una certa leggerezza non solo nella scrittura, ma anche nella vita, nonostante tutto.
A tratti emerge l’amarezza, si intende. La bellezza della vita non sarà preclusa all’autrice solo quando morirà, ma inizia a esserle negata anche negli ultimi tempi della sua esistenza. Eppure, sembra dirci Pia Pera, si può cercare qualcosa di prezioso anche quando un’entità grande e assurda ci costringe a mettere in discussione quanto davamo per scontato e rallentare, fino ad accettare che ci dovremo fermare senza possibilità di appello:
Forse la cosa da accettare senza ribellarsi è che questi inspiegabili, inoperosi spezzoni di vita possono valere anche loro la pena.
Un insegnamento dal valore inestimabile, che ci lascia senz’altro tristezza, ma anche una profonda gratitudine nei confronti di Pia Pera, che per un’ultima volta ha pensato a chi sarebbe rimasto dopo di lei e ha scelto di pubblicare questo libro.
In copertina: Pia Pera con la cagnolina Macchia. Da: ilsole24ore.com
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