Sulle orme del folle poeta notturno

«Ricordi di suoni e di luci» di Renato Martinoni

7 minuti di lettura
Dino Campana

Non sempre l’immaginazione è una fuga dalla realtà. Spesso, invece, si rivela un modo efficace per comprenderla più a fondo. Soprattutto se questa realtà coincide con l’universo interiore di un poeta «tutto in ansia del segreto delle stelle». Tra le pagine di Ricordi di suoni e di luci, Renato Martinoni affida la storia di Dino Campana a una fiaba lirica in cui biografia e fantasia s’incontrano e s’intrecciano in un gioco narrativo. Il romanzo del narratore svizzero, edito da Manni Editori, è candidato al Premio Strega 2025 su proposta di Pietro Gibellini:

Martinoni si è qui posto totalmente al servizio dello scrittore, inventivo e profondo. L’incandescente vicenda fisica e mentale del protagonista, resa con soluzioni stilistiche originali e cortocircuiti immaginativi sorprendenti, e con una ammirevole qualità linguistica, si versa in una calcolata architettura: quattro parti, ciascuna di sei capitoli (…) il romanzo non vuole narrare la vita di un uomo, anche se lo scenario è quello dei luoghi realmente frequentati dal “matt Campèna” nella sua mania ambulatoria e le persone, pur con nomi diversi, sono quelle con cui ha avuto dei rapporti. Esso segue una tesi molto accattivante: quella secondo cui la follia consegue alla progressiva coscienza dell’impossibilità, per chi sa di essere stato un poeta grande e originale, di essere ancora poeta: della perdita della Poesia, insomma.

«Lo strambo, il vagabondo, il matto»

Non è un caso che il nome di Campana appaia solo nell’ultimo capitolo. Per celare l’identità del suo protagonista, Martinoni lo fa viaggiare tra le pagine con epiteti sempre diversi. A volte è lo strambo, altre il vagabondo e altre ancora il matto. Ma essenzialmente è sempre lui: «il poeta notturno». Vaga senza stancarsi sulle montagne, per le colline, in mezzo ai castagneti, negli antri del fiume, dentro valli profonde e lungo sentieri remoti. «Senza mai sostare, se non per lasciarsi cadere sull’erba, all’improvviso, fissando il cielo con gli occhi sbarrati».

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Tenta di comporre qualche verso. Appunta, cancella, riannota sulle ultime pagine vuote del suo calepino. Ma la fatica è tanta. E allora soffre, soffre tremendamente. Pieno d’angoscia riprende a passeggiare. Rimugina pensieri, riflette ad alta voce, borbotta frasi che solo lui capisce. A volte si domanda perché «oggi è qui, ieri era là, e domani dove sarà». Non trova una risposta che lo faccia star bene. «Devo combinare qualcosa di buono. Devo creare, nient’altro che creare», si ripete e pensa alla sua poesia, «prima che tutto finisca».

«Questo viaggio chiamavamo amore»

«Caro amico», dice una lettera che lo spostato trova alla posta: «Forse mi conoscete. Sono trascorsi dieci anni da quando ho pubblicato un libro che ha avuto molti lettori e un poco di gloria, ma che mi ha procurato tanti insulti e infinite sofferenze (…) Ma non voglio parlarvi di me. Desidero invece parlare di voi. Mai mi è capitato di leggere liriche più belle delle vostre. Colpiscono il cuore e lo portano in mondi lontani e misteriosi (…) Vorrei stare con voi, sdraiata sull’erba umida di rugiada. Parlare a bassa voce. Come si conviene a due cuori solitari. Della vita. Di poesia». Legge e rilegge la lettera che sa di gelsomino, lo strambo.

La «fata bianca» entra nella vita del matto con una lettera. Non sa cosa cosa dire, l’«uomo dei boschi». Nessuna donna, prima d’ora, gli ha mai scritto simili parole. «Chiudo il tuo libro, snodo le mie trecce, o cuor selvaggio, musico cuor»: Samia, o meglio Sibilla Aleramo, si rivela con queste lirica premessa. Lo raggiunge in un giorno d’estate e si presenta vestita di bianco con un cappello addobbato di fiori. Lui balbetta, incredulo. E con un filo di voce le chiede «siete la fata bianca?». È subito passione furibonda, talmente bruciante da esaurirsi nell’arco di due anni. «Abbiamo trovato delle rose/ Erano le sue rose erano le mie rose/ Questo viaggio chiamavamo amore», scrive il matto, «Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose/ Che brillavano un momento al sole del mattino/ Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi».

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Visioni del pazzo dolce

La sofferenza psichica del matto avanza inesorabilmente. E quella che era una fata bianca diventa ben presto rossa e poi nera. Pensa al suicidio, il vagabondo. Si ubriaca ogni giorno e spesso si addormenta all’osteria con la testa rovesciata sul tavolo. Ha smesso di radersi, lavarsi e cambiarsi i vestiti. Non fa che ripetersi che è giunta l’ora. Vorrebbe ancora scrivere, anche solo un verso. «O una misera parola». Ma, «dopo tante tempeste», l’unica cosa in grado di restituire serenità al suo dolore è il silenzio.

Martinoni segue le orme del suo «pazzo dolce» fino all’ultima pagina di Ricordi di suoni e di luci (acquista). Alla fine di un instancabile cammino, gli siede accanto nelle sue ultime dodici ore di febbre e sei di agonia. E nel silenzio si domanda se il suo poeta notturno «libero da tutto, immemore di ogni gioia e di ogni dolore, nel soffio senza tempo che corre fra la vita e la morte» sia riuscito a vedere ancora più cose che in tutta la sua folle esistenza.

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Costanza Valdina

24 anni, nata a Perugia, laureata in letteratura americana all’Università Ca’ Foscari di Venezia. La descrivono come un’instancabile lettrice, un’incurabile cinefila e una viaggiatrice curiosa. Negli anni si è innamorata della scrittura e del giornalismo, ispirata dall’ideale che “pensieri e parole possono cambiare il mondo.”

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