Oriana Fallaci e il prezzo del futuro

«Se il Sole muore» di Oriana Fallaci

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«Se il Sole muore» di Oriana Fallaci

C’è stato uno spazio e un tempo in cui il peso delle paure e il grigiore del declino non avevano ancora offuscato l’orizzonte. Un’epoca in cui il progresso rappresentava una promessa tangibile, nutrita di ottimismo, e il futuro appariva come una direzione chiara e luminosa, mentre il disincanto non aveva ancora alzato la voce.

Se il Sole muore è il diario di un anno vissuto in questo spazio e in questo tempo da Oriana Fallaci – la donna entrata nella storia del giornalismo italiano quasi per un effetto collaterale del «voler fare lo scrittore». Un anno a stelle e strisce, il 1964, quando negli States si poteva credere alle stelle e i sogni più antichi dell’uomo sembravano a portata di mano: conquistare lo spazio, giocare a carte con Dio, varcare la soglia di quell’infinito su cui avevano teorizzato filosofi e poeti.

Radici e razzi

Ma Oriana Fallaci non fa solo cronaca. Il suo libro è fatto di carne e sangue, di emozioni che bruciano sotto la pelle, di inquietudini. Cattura le sensazioni e le vibrazioni elettriche della società americana di fronte alla conquista dello spazio e, nel frattempo, intesse un dialogo mentale – silenzioso ma ostinato – con il padre, uomo radicato nella terra, nella tradizione, nel buonsenso. Il signor Fallaci non vuole sentire parlare di razzi e viaggi sconsiderati, non crede in queste imprese spaziali inutilmente rischiose, che paiono sfidare la morte per vanità. Lei scrive per convincerlo, ma soprattutto per convincere se stessa. Valeva davvero la pena spingersi oltre il cielo o si trattava di un’illusione ben confezionata?

Ogni pagina scritta per convincere lui è una pagina scritta per rassicurare se stessa di avere ragione.

Nel corso del suo viaggio, Fallaci parla con Ray Bradbury, il cantore visionario della fantascienza, con gli astronauti, con gli ingegneri della NASA, con Wernher Von Braun ed Ernst Stuhlinger, due uomini che hanno fatto della Luna e di Marte un obiettivo e della scienza una fede. E alla fine di ognuna di queste conversazioni, percepisce di trovarsi a cavallo tra due esperienze: da un lato, il presente – sicuro, coerente, ma già vecchio, già superato; dall’altro, il futuro – incerto e vertiginoso, spaventoso e freddo, ma che è dovere morale perseguire. Nei meccanismi del mondo di domani, Fallaci sente il desiderio di tornare dove tutto è stabile e più comprensibile. Poi ci ripensa. Cambia idea. Mille volte. Fino a quando comprende che indietro non si torna, che il vento del progresso non conosce tregua, che il futuro – nel bene e nel male – è casa di ognuno di noi.

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«Se il Sole muore»: attraversare per comprendere

Se il Sole muore ci insegna che, di fronte alla novità, restare immobili sulla soglia della diffidenza e scagliare anatemi contro ciò che non si comprende è forse l’errore più grande. Fallaci diffida, sì, ma con la curiosità di chi vuole capire, non distruggere. La sua intelligenza non predica, ma abbraccia. Si immerge nelle cose, le attraversa, le sente, le restituisce con la febbre addosso. Esplora fino in fondo questa avventura disumana e apparentemente inutile che è la corsa allo spazio, e ne riemerge con un commovente inno alla vita.

Nei primi capitoli di Se il Sole muore (acquista), Miss Fallaci riapre la porta dell’infanzia. Rievoca il senso di vuoto, la rabbia cieca che la assaliva quando si parlava della morte della Terra, del Sole. Per una bambina, gli astri sono immortali. Come una madre, come un padre. L’idea che possano spegnersi è una bestemmia.

La morte è ingiusta. Non si dovrebbe morire dal momento in cui si nasce.

Ma ciò che ha visto e ascoltato – tra ingegneri, astronauti e visionari – la porta a una conclusione diversa. Non esistono Inferno né Paradiso. Non esiste la giustizia assoluta, così come non esiste la bontà. Esiste solo la vita, con le sue leggi spietate e meravigliose. Si è convinta: «Hanno ragione loro, papà». Anche se, forse, agli uomini restano solo Five years sulla Terra, come urlerà David Bowie otto anni più tardi, aprendo l’epopea di Ziggy Stardust. Anche se «un albero muore, se un uomo muore, se il Sole muore», la vita continuerà a pulsare lassù, nel cielo che «dona tante case accese».

Lo comprende nel momento in cui, cercando eroi, trova uomini. Gli eroi sono soli. Gli astronauti non possono esserlo. Possono diventarlo, forse, solo quando qualcosa va storto e rimangono abbandonati, come Major Tom, disperso nello spazio del silenzio di Space Oddity. Lo comprende fino in fondo quando muore il suo Teodoro – Theodore Freeman, il “poeta”, uno dei futuri astronauti del programma Apollo. Oriana cercava la disperazione nei suoi compagni. Non la trova. Se ne indigna. Li crede freddi, insensibili. Poi capisce: non è indifferenza, ma accettazione. Trova quella forma silenziosa e immensa di amore per la vita che non ha bisogno di lacrime.

La morte non esiste. È solo il prezzo con cui si paga la vita. Hanno ragione loro, gli uomini gonfi di domani. E la ragione fa sempre una dannata paura.

Questa Terra è una prigione? Va bene. Ci sto a mio agio in questa prigione, è calda e sicura come un ventre materno. […] Ma il ventre materno non ti tiene mica per sempre. Se ti tiene per sempre ci muori, e muore anche lui. […] Magari non lo volevi nemmeno vedere quel mondo. […] E non fu un abuso importi quel cambiamento, neanche una crudeltà: fu l’unico modo per continuare la vita.

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Riccardo Tortora

Classe 2002, romano attualmente residente a Milano, studia Editoria all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Appassionato di letteratura e tipografia, ama vivere immerso nei libri: leggerli, scriverne, discuterne, progettarli. Ma anche maltrattarli un po’ – i suoi volumi sono pieni di orecchie, chiose e sottolineature rigorosamente a penna.

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